Ricordando in tranquillità
La mia memoria è molto selettiva, lo garantisco. E volubile.
Aspra lei scivola su fredde nomenclature e futuri ordinati in scadenze severe, e le organizza poi con inevitabile svogliatezza. Di quando in quando, delle une e delle altre ne finisce per perdere qualche d'una per la via, e di esse in seguito non ne sentirò più parlare. Non fraintendiamo, capita qualche volta che nomi generici, al soldo dello schema, ed un futuro in bell'ordine possano far comodo in certi casi di necessitata chiarezza. Sarà anzi proprio per questo motivo che ho deciso di iniziare usufruendo sia degli uni che dell'altro.
Oggi è un 12 dicembre assai poco invernale e molto freddo. Ho messo da parte qualche pensiero interessante da esporre con calma. Ho considerato accettabile il momento e la propensione d'animo per riportare, dico proprio oggi, e proprio qui, quel che mi è accaduto negli ultimi anni.
Devo ammettere che il tema di cui tratterò super per la maggior parte del tempo la mia partecipazione e comprensione, rendendomi un quieto osservatore (ho scritto quieto?) di eventi troppo grandi e troppo antichi per potermi permettere giudizi di sorta o rappresentazioni adeguate. Da questo ne era derivata una indecisione cocente su quanto fosse giusto rispolverare e assegnare pezzo a pezzo ogni parte al macchinario complesso e lasciarlo funzionare da sé, temendo che vecchie parole non riuscissero ad annunciare la novità compiuta.
L'altra settimana, comunque, ne parlai ad un amico editore, non il migliore e non il più fidato fra l'altro (sia di amico, che di editore), il quale cercò di persuadermi a buttare tutto su carta quasi non fosse cosa mia, quasi fosse necessario sbarazzarsene. Sto provando a dargli ascolto. Ma la mia memoria è molto selettiva, lo ripeto, e senza dubbio altrettanto caotica nell'apprendere i dati. Più ancora nel lasciarsi accarezzare da adeguate suggestioni.
Tutto quel che ho vissuto turbina nella mia testa quasi fosse un grosso spauracchio, impalpabile e denso, e seguendo la strada usuale che mi è cara, provo ora ad organizzarlo tendendo filo per filo la tela, acconciando la materia informe alla bell'e meglio per poterne io, in primo luogo, osservarne l'immagine completa. Sublime o spaventosa che possa essere.
Iniziare dalla conclusione ho creduto fosse il modo migliore per risvegliare con cura i ricordi agitati, lasciare il tempo affinché si potessero stiracchiare nel torpore, di modo che poi potessero raccontare la loro scena del dramma, offrendola ai miei occhi e lisciandola attraverso le mie mani. E la conclusione è che l'essere umano, in realtà, è rimasto sempre uguale a sé stesso, nella sostanza, e che così pure era accaduto per le culture di leggende e miti da lui generate. Egli si è limitato tuttalpiù a reinventarle, con nuove espressioni identificative e caratteristiche, quando pure restavano invariate nel concetto essenziale. Un'unica storia, quindi, molte volte raccontata, che parlava degli stessi princìpi, troppo astratti per essere fissati nel tempo e risultando nelle tentate rappresentazioni simile piuttosto ad un quadro cubista, che dipinge la figura da tante prospettive, sformandola nella sua ineffabile totalità che pure c'è, ed è reale. Lo spirito del tempo e la cultura diacronica di un popolo sono screzi, frammenti di specchi che catturano la luce per un momento e la riservano nella propria finitezza, sino a dove è possibile pensare, sino a quando è possibile credere. Ed è questo di cui parla ogni cosa umana, in fin dei conti. Ed è di questo che parlo io, adesso.
Nomenclature, dunque. E futuri ordinati.
Le prime, freddamente riportate, si nascondono nelle zone d'ombra dei secoli riassumendosi dietro le parole raegaiche di Conosairè Phailòs. Erano e sono in pochi a ravvivare il fuoco sotterraneo di questa che rappresenta l'unica rimembranza di ere scavalcate dal mondo, e dalla società, e dagli uomini stessi. La Conosairè è un tentativo ambizioso, una lunga attesa e la più spregiudicata sfida al tempo ed all'oblio.
I miei futuri ordinati, invece, tendono inevitabilmente al momento in cui verrà pubblicato un libro di Thomas Derry, uno dei rarissimi studiosi della Conosairè e mio grande amico. L'opera sarà intitolata L'Eco dei molti passati e, con ogni probabilità, verrà preceduta di qualche mese da un trattato in 66 punti dello stesso autore che riguarda il manoscritto Voynich di Ruggero Bacone e di cui in seguito avrò modo di accennare qualcosa. Lo scritto che io tento di compilare, qui ed ora, e quello che riporterò, hanno la pacata ambizione di essere un'appendice interpretabile di entrambi, una forse pericolosa anticipazione che solo a posteriori risulterà comprensibile a tutti gli effetti, quando lo studio dei simboli sarà edito e quel che qui è stato nascosto da altri si riuscirà facilmente ad astrarre.
Secondo le volontà dell'autore, entrambi i volumi dovrebbero essere pubblicati nei prossimi anni, a cura della Namasi Editrice, casa indipendente fiorentina. Fino a quel momento mi assumo le responsabilità di quello che qui verrà esposto, con le eventuali imprecisioni del caso.
Su un punto bisogna preventivamente chiarirsi. Cosa è la Conosairè Phailòs?
A tal riguardo si potrebbero spendere molte parole, Thomas ne ha compilato un intero libro, come dicevo. Io mi occupo invece di accennarla, adesso, e la definisco un passato, più che un presente, con carattere permanente, che registra nelle sue fila pochi uomini e molti eventi. E' un circolo di apprezzabili depositari del sapere trascorso. Personalità che garantiscono al tempo attuale le vestigia dei nostri antenati più antichi. Nonostante questo, non è individuabile come società segreta, senza dubbio. Gli adepti, che pure ci sono, o c'erano, seguono culti indipendenti che non ho avuto modo di conoscere in maniera approfondita (se pure una fonte accertata riporti l'esistenza di almeno uno di essi) ed invece i più risultano essere sostenitori, se così vogliamo chiamarli. E' una istituzione mai ufficializzata, che ispira inquietudine più che devozione per il carattere arcano che possiede per natura. Essa è l'ultima dimora degli Antichi Miti, dove vengono ancora esposti nella rigida Regola, per molti implicita, che ne aborre un qualunque cambiamento. E' un insieme di tante esperienze isolate di sopravvivenze mitologiche.
Se vogliamo adottare una definizione, la Conosairè Phailòs è l'insieme dei racconti ancestrali, intoccabili ed intoccati. Così come erano stati scritti nel buio del passato più lontano, in quello non considerato, non sospettabile e solo saltuariamente immaginato. Un'aspettativa certo romantica e rispettabile prevista dalla Regola di cui parlavo, che loro stessi chiamano “Via”.
Parlando con Thomas Derry sono venuto a conoscenza di alcune inaspettate coincidenze fra storia ufficiale e storia della Via, le più evidenti di esse al tempo del medioevo quando paradossalmente la cultura tendeva ad una generale opera di censura e quando dunque quel che non era ortodosso veniva facilmente scartato o, peggio, bruciato. La maggior parte delle restituzioni storiche accertate, infatti, sono giunte ai nostri giorni attraverso fonti più o meno estranee o addirittura contrarie alla Via ortodossa. Due personaggi significativi in questo senso e se non altro conosciuti ai posteri, di cui ho potuto visionare opere e citazioni grazie a Thomas, furono Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, nomi illustri della Scolastica medievale e, nello stesso tempo, i casi più rappresentativi dell'esistenza della Conosairè.
Dalle restanti esperienze sfuggenti rinvenute, risultava evidente allo studio una quasi o forse accordata mancanza di organizzazione della Conosairè. Le varie espressioni che la caratterizzarono ebbero probabilmente anche diversi punti di contatto ed incontro ma con ogni probabilità non interagivano mai in maniera sistematica l'una con l'altra. Esse piuttosto convivevano negli stessi tempi, in aree distanti, portando avanti una ideologia archetipica ed una dottrina comune nei termini e muovendosi alle spalle della testimonianza ufficiale alla stessa maniera, la quale significava, nella quasi totalità dei casi, l'essere ignorate dal mondo e perpetrando attraverso i secoli quell'elemento storico duraturo là dove il tempo non lo avrebbe scalfito, dietro la campana di vetro della Storia invisibile. La Conosairè si sviluppava a tutti gli effetti come un'insieme di tante esperienze isolate, impregnate di strenuo elitarismo. La Regola non ricercava la mera espressione testuale, né una forzata esposizione all'estraneo, che da molti esponenti della Conosairè veniva anzi visto come portatore di errore e mistificazione. L'appartenenza era per quei pochi che istintivamente avevano la giusta propensione d'animo ed una adeguata prontezza d'intelletto, e tutto questo si attualizzava in un contesto ben lontano da un qualunque tipo di pratica di iniziazione per chi desiderasse farne parte. Non fu dunque per caso che il mio amico mise la Conosairè in correlazione con i Rosa-Croce e con il loro studio esegetico del Liber Mundi, il Libro del Mondo, e conseguentemente con la società segreta che ad essa si ispirava, La Golden Dawn.
La ricerca e conoscenza oligarchica rosacrociana era naturalmente difesa, se pure nel tempo si hanno avute molte deviazioni che hanno poi sfociato in quasi altrettante deformazioni di pensiero, di cui la già nominata Golden Dawn potrebbe essere un esempio. Ancora Thomas Derry mi parlò di altri casi simili e fra essi quello più emblematico, perché divenne l'antesignano di altri movimenti ben più conosciuti e tragicamente noti: quello del professor Horbiger, colui che immaginò la Wel, cioè la Welteislehre, la teoria del ghiaccio eterno. Questa teoria sarebbe infatti derivata da una rifrazione e manipolazione di fonti disparate della Conosairè, le più evidenti sarebbero quelle della Fine dei Tempi, la Denè o'Aimee, tradotta in tedesco dall'unica fonte in antico inglese negli anni venti del XX° secolo secondo quanto mi riferì il mio amico, poi del mito di Nimess, la sorella oscura del sole, contenuto negli Scritti di Pefki, ed infine della caduta della Luna, da cui derivò con ogni probabilità l'idea di Horbiger dei molti satelliti che precedettero l'attuale Luna, ognuno dei quali dopo lungo tempo strinse la propria orbita attorno alla Terra per poi frantumarsi e precipitare nell'atmosfera, provocando grandi cataclismi ed estinzioni di massa. La Wel non solo causò una esposizione incoerente ed imprecisa delle proprie fonti originali, ma costrinse il vero valore nascosto del mito sotto l'onta del peccato, dietro gli ordini spaventosi che ne derivarono, dalla società segreta Thule alla religione del sangue di Rosenberg, dalla ricerca spasmodica di Hitler del Santo Graal a quella delle origini della razza ariana in Tibet, azioni ed ideologie che avrebbero animato il nazionalsocialismo e che quindi ne furono una espressione fondante.
Il peso della conoscenza e del male che poteva derivare da una sua incauta esposizione strozzava i rapporti con la comunità, lasciando i sostenitori della Conosairè alle proprie aule silenziose, isolati, salvaguardando la correttezza delle nozioni, la precisione delle conoscenze e l'esattezza del risultato.
“Erano diventati tanti piccoli tea-club per snob con la puzza sotto il naso”, mi diceva spesso Derry.
Immagino ancora adesso tanti vecchi di nobili famiglie decadute con lo sguardo arcigno, che si spostano solitari ed, incontrandosi casualmente, si riconoscono gli uni con gli altri per un carattere non evidente eppure loro peculiare, facendosi un cenno d'intesa per poi continuare ognuno per la propria strada, orgogliosi della storia che li unisce e che molti avevano magari dimenticato ma che essi avrebbero invece sempre difeso con rispetto e strenuo impegno.
E probabilmente il mio pensiero echeggiava di studi precedenti, di frasi come quelle di Serge Hutin, dottore in lettere, laureato all'Ecole Pratique des Hautes Etudes, il quale affermava: "Essi [i Rosa-Croce] costituiscono allora la collettività degli esseri che pervenuti ad un grado superiore a quello della comune umanità, possiedono così gli stessi caratteri interiori che permettono loro di riconoscersi". Thomas Derry studiò i rapporti fra i due movimenti invisibili sin dalla prima apparizione dei Rosa Croce, nel 1622, con risultati certo sorprendenti.
Che sia verificata questa corrispondenza, comunque, di quelle anziane personalità isolate e colte, dopo una lunga opera di ricerca, le curiose ed inaspettate pieghe della storia umana restituirono alcuni altri nomi. Nomi di persone, appunto, ma anche di opere e luoghi e tempi che si richiamavano gli uni con gli altri formando un intrico abbastanza complesso della corporazione della Via nella sua totalità spaziale e temporale.
Il più importante di ogni altro, almeno per il mio caso, fu Ibn Alef Pasham il Costruttore, dal cui impegno autoriale derivò anche il mio incontro con la Conosairè. Ma per arrivare a lui, bisogna partire da un'altra persona: mio nonno Michele, padre di mia madre.
Personalmente non ho mai conosciuto mio nonno, il quale morì mentre io compivo il mio secondo anno. Nonostante ciò, crescendo, mi sono imbattuto frequentemente nella sua figura e questo perché ho trascorso quasi tutte le estati della mia giovinezza nel paese di Massa di Toano, in provincia di Reggio Emilia, dove lui visse assieme a mia nonna Enrica per lungo tempo. Non ricordo che suono avesse la sua voce, ma i suoi libri, i suoi interlocutori se vogliamo, furono anche i miei. E loro mi parlarono anche di lui, senza dubbio.
La libreria che aveva organizzato in cantina era molto specializzata. Non possedeva un gran numero di opere, questo è vero, ma quelle che stanche si appoggiavano le une alle altre sulle mensole corrose dai tarli, erano ben tenute e di un argomento limitato nella sua immane generalità: mitologia.
Fra queste poi, una in particolare pareva concedersi con slancio ad un desiderato lettore, quasi gettandoglisi addosso dall'ultimo scaffale in alto, proprio dal mezzo, dietro ad un vecchio binocolo ed una pietra raccolta chissà quando, chissà dove. Grande ed imponente, quel volume recava sul dorso il titolo dorato “Leggende dell'Appennino Tosco-Emiliano”.
Con sincerità non ricordo se lo avessi già letto, tutto o in parte, prima di compiere sedici anni. E se ciò accadde in ogni caso non ne serbo alcun ricordo. Quando però lo sfogliai in quello strano 14 novembre, era il 2002, e mi prese a tal punto che finii col portarlo sempre con me, quasi fosse una via sicura verso quel che stavo cercando. E che volevo trovare, ovviamente.
Non vi era segnalato il curatore o i curatori, e solo dopo qualche anno provai ad ipotizzare fosse stato mio nonno in persona ad aver raccolto con impegno tutte quelle storie che parevano uscite fresche fresche da una bocca anziana e saggia, in una gravida giornata di memorie sui monti, sotto il richiamo della gazza che sfreccia nel cielo, dove l'aria sussurra e consiglia e la mente accoglie ed ascolta.
Sono stato molto tempo su quelle pagine ingiallite e potrei riportare qui ed ora capitolo dopo capitolo, pagina dopo pagina, talvolta parola dopo parola quel che tante volte vi lessi: la giovane donna del pozzo di Manno, ad esempio, che bianca nei suoi veli chiedeva aiuto con voce spettrale e cantilenante; oppure il diavolo cornuto della Veggia, scacciato da una manciata di terriccio umido, scomparendo in una fiammata. Altri, più frivoli, come la storia del guardiano del cimitero di Massa che rimase chiuso per errore nel camposanto finendo per spaventare due ignare signore che a sera inoltrata passarono da quelle parti. "Raccogliere le parole è una prova di resistenza alla manipolazione, rende fisse le storie che non lo furono mai per intero e che dovettero spostarsi come popolazioni lungo vie umane, crescendo ed invecchiando. Queste storie sono come fotografie di un uomo che fu un tempo giovane e che ora è vecchio e balbetta." [Autori Vari, Leggende dell'Appennino Tosco-Emiliano, Curatore sconosciuto (Reggio Emilia: Ed. Sic&Greta, 1979), p.2]
Curiosamente, però, nella lunga elencazione di personaggi ed episodi ce ne erano tre che nominavano un luogo ben preciso eppure a me assolutamente sconosciuto: Nuovo Rosso.
Cercai di documentarmi quanto mi fu possibile, e non trovai di meglio che supporre qualche correlazione fra il Monte Rosso vicino a Cà Rabacchi ed il paese di Castelnovo ne' Monti. Ovviamente lo studio subì un arresto e solo dopo molto tempo capii che ero totalmente fuori strada.
Le tre leggende ambientate a Nuovo Rosso narravano di uno stesso personaggio, "Re indiscusso delle Alture"molti anni fa, quando evidentemente nessuno dei paesi oggi esistenti era stato ancora edificato. Quel Re aveva nome Fosso e dopo lunghi anni di pace con i popoli della pianura, intraprese contro di questi una guerra interminabile per vendicare la morte dei suoi tre padri. Quello naturale, ucciso quando Fosso era ancora in fasce per mano di un uomo di nome Lauro, il quale poi costrinse la Regina Madre a scappare con il figlio sulle alture confinanti, e quelli adottivi, che rappresentarono la crescita umana del Re, esiliato lontano dalla propria terra, prima lasciato alle cure di un pastore di capre e poi a quelle di un eremita dei boschi. Con vicende alterne, infine, Fosso guadagnerà l'occasione di tornare al proprio regno per assumerne la guida.
Ognuna delle storie ricorda della guerra perpetrata ai danni dei popoli della pianura (verosimilmente potevano essere i Pelasgi, o magari gli stessi Etruschi-Villanoviani) in nome di uno dei tre padri: Daio, quello naturale, Sino e Gheso, quelli adottivi.
I racconti erano i più lunghi della raccolta e venivano relegati in conclusione, in una sorta di allontanamento progressivo dalla materia originaria. Quasi fossero miti che insieme appartenevano ed esulavano dall'area presa in considerazione. In questo, almeno, ebbi la giusta intuizione.
In aggiunta a ciò Ibn Alef Pasham il Costruttore e la sua opera dal titolo in latino De Unicitate Rerum Deorum venivano segnalate come uniche fonti delle tre leggende, e se un occhio poco attento o inesperto (o poco interessato alla bibliografia) non poteva suggerire alcuna soluzione, la sua particolarità mi convinse a continuare su quella strada. Era se non altro curioso che un nome tanto esotico fosse la fonte autorevole per una leggenda emiliana tanto antica. L'idea della falsificazione era per una mente più maliziosa di quanto non fosse la mia, in quel periodo. Mi documentai quindi riguardo a Pasham ma la ricerca fu abbastanza infruttuosa devo dire. Era come se Pasham non fosse mai esistito o magari, come mi decisi a pensare con una certa emozione, nessuno gli aveva ancora tributato il giusto merito per quelle leggende che sapevano di magia straniera ed insieme collettiva, unificatrice.
Per molti anni il mio personale e curioso mistero rimase irrisolto ed io ne attesi in un inconscio sonno inquieto una risoluzione che tardava, tanto più a lungo che finii per dimenticarmene. Almeno fino a quando l'eredità invisibile passò nelle mani di mio padre, il quale aveva sviluppato da tempo una passione molto vicina a quella del suocero e, a quanto mi disse, anche del proprio padre. Ed io con lui, dato che quegli interessi scorrevano anche nella mia mente di novizio.
Vedevo un gran numero di opere di molti generi fare un vivace carosello per casa. Quadri un giorno, libri il successivo. E nel mentre che io continuavo gli studi, e dal liceo passavo all'università di lettere a Parma, avevo ormai udito il nome dell'antiquario Massimo Carinardi molte volte. Ottime erano le impressioni di mio padre per quello l'uomo aveva in casa e le molte nozioni che egli sembrava possedesse nel campo dell'arte in generale. Non fu dunque per caso che mi lasciai convincere a mostrargli il libro, se tanto desideravo avere qualche informazione a riguardo.
Fosse stato per me, certo, avrei più volentieri ascoltato il parere di qualche professore, di cui almeno conoscessi il viso e di cui possedessi un preciso recapito pubblicamente accessibile. Che quindi avrei potuto tutt'al più raggiungere a Parma, in un quarto d'ora di treno, e non alla periferia di Verona, ad un'ora e quaranta di macchina.
Considerando d'altra parte che nessuno dei professori a cui accennavo sembrasse conoscere anche solo il nome di Ibn Pasham e che inoltre non mi fosse ignoto che Carinardi stimasse mio nonno come grande amico, accettai di chiedere il suo parere. Si poteva addirittura sospettare, mi dissi, che fosse stato lui il reale proprietario del libro che così a lungo mi aveva tenuto compagnia. La sua libreria, infatti, assumeva sfumature leggendarie a sentir parlare mio padre e cominciavo a credere che ogni libro scritto o copiato di questa terra fosse passato almeno una volta per quegli scaffali.
La mia intuizione fu senza dubbio geniale.
Lasciai che mio padre lo portasse da Carinardi, e da quel viaggio non tornò più indietro. Il libro, intendo. L'antiquario pretese per sè quel che affermò esser sempre stato di sua proprietà e che, a quanto pare, mio nonno aveva pensato bene di tenere per qualche tempo, giusto lo spazio di qualche decennio insomma.
Dopo una breve battaglia verbale portata avanti per telefono, le comunicazioni vennero interrotte. Il vecchio era un burbero sofista dei tempi di Socrate e la prima parola che gli sentì pronunciare fu: No. A dire la verità anche la seconda. La terza, se non erro, fu un "basta". Del resto non potevo fare molto, da dietro ad una cornetta. E tale era anche l'opinione mio padre, che nel frattempo stava contrattando per un affare di più alta levatura, ormai arenato da settimane nell'assoluto mutismo dell'antiquario.
L'idea che Carinardi non si fosse mai fatto vivo prima per riavere quel libro, soprattutto dopo la morte del nonno, era ben presente nella mia mente quando mi misi in macchina assieme a mio padre, ognuno armato del proprio proposito, in direzione di Verona.
Guidava mio padre.
L'attaccamento dell'anziano collezionista all'antica creatura di carta stampata fece nascere in me più di qualche semplice speranza sulla reale importanza dell'opera e su quello che dal suo proprietario avrei potuto sapere.
Era un sabato pomeriggio ed era inverno. Doveva essere dicembre.
L'auto filava, immersa nelle onde del blues di Robert Johnson che tratteggiava all'orizzonte la città di Chicago, scura e tremula, frastagliata dietro l'impressione di un miraggio.
Mentre l'autostrada scorreva sui lati, mio padre raccontò quel che sapeva di Massimo Carinardi, l'antiquario. La famiglia di questi era molto antica e molto ricca, fattore che gli semplificò di molto la vita scolastica. All'Università studiò lettere, anche se non discusse mai la tesi di laurea. Personaggio molto originale, le cui passioni artistiche avevano scavalcato facilmente quelle umane, cosa che lo costrinse ad una vita per lo più solitaria.
<< L'arte. >> sillabò mio padre, sventolando in aria una mano. << Un museo dietro i rovi, il suo. Vedrai. >>
Venni a sapere che Carinardi era stato amico anche del padre di mio padre, Walter Verza, con cui smise di avere rapporti in un momento non meglio precisato degli anni Ottanta. Per problemi economici, a quanto pare. Vi era stato sicuramente un periodo in cui i tre si scambiavano reciprocamente una fitta corrispondenza.
Come entrambi i miei nonni, mi venne spiegato, Massimo Carinardi aveva combattuto sul fronte greco-albanese durante la Grande Guerra e fu proprio là che conobbe Walter, in quanto paziente di quest'ultimo, il quale era medico da campo.
Al contrario, non seppe mai con precisione quando iniziò i suoi rapporti con Michele.
<< Probabilmente al tempo del mio matrimonio >> mi disse, in maniera disinteressata.
Giungemmo al cancello quando il sole stava cominciando a declinare verso ovest. Il pomeriggio di quei giorni era breve e smorzato.
Avevo potuto vedere Verona solo un'altra volta, per una gita scolastica, molto tempo prima, e non avevo modo di sapere dove ci trovassimo in quel momento. Le mie conoscenze si fermavano a poche vie che sbrecciavano le case fuggendo al cospetto dell'Arena, dopotutto. Qualche immagine, anche, scherzi con gli amici ed un profumo intimo di un qualche ristorante. Null'altro.
Doveva essere un quartiere della periferia. Era poco affollato ed un po' inquietante. La villa non avrebbe potuto essere più caratteristica ed emblematica dei costumi della persona che vi abitava, circondata com'era da quell'aura bucolica tipica dei vecchi troni dell'arte selvaggia. Statue artificiose e bianche, ma sporche. Inflessibili, sebbene indifese nei confronti della natura verdeggiante che le divorava pian piano e le rendeva così beatamente prigioniere. Era un crescendo di silenzi, lì attorno. Raggiungeva parossismi di nulla assorto, osservati da vecchie ante di finestre la cui vernice scrostata sussurrava passate ferite di incuria. Un mondo interno, ecco cosa sembra. Una rappresentazione della mancanza d'esteriorità, tutto interiorizzato e accartocciato su sé stesso nella decadenza superficiale. Una fontana sputacchiava acqua al cielo, dietro ad un salice piangente. La villa si nascondeva, ti guardava curiosa sciogliendosi dal proprio bianco all'oscurità delle ombre, lì dove il sole si faceva desiderare. Il viale che accompagnava alla scalinata d'ingresso era maleducato, molte lastre sporgevano.
Da qualche parte una macchina rombava, ma pareva piuttosto il rumore involontario di una modernità strappata dal reale che lasciava ora il posto al perenne morente che mai scompare. Quasi invisibile, sopra i battenti del portone lontano, capeggiava una scritta incisa: Mane Thecel Phares.
Ebbi l'impressione di aver già vissuto quella scena e credetti con sicurezza di aver letto da qualche parte di una villa simile. Un brivido mi percorse la schiena perché avevo la poco rassicurante certezza che nell'altro caso le cose fossero finite davvero molto male.
Mio padre si avvicinò alla cancellata e suonò il citofono. Affidò uno sguardo iroso alla piccola videocamera di sicurezza che c'era lì accanto. Da dietro le sbarre arrugginite gli indicai una bellissima Porsche Carrera parcheggiata sul ghiaietto, davanti al garage. Lui annuì con un sorriso incerto e suonò di nuovo. L'auto stonava con il senso di temporaneità passata e perpetua dell'ambiente in cui era immersa. Suonò una volta ancora.
Qualcuno infine rispose, dopo quei ripetuti assalti ed un crescente nervosismo. Mio padre non è mai stato una persona calma e pacata.
<< Umberto... >> Chiunque avesse parlato, non pareva affatto sorpreso. E se pure ci aveva visti, sembrava avermi ignorato del tutto.
<< Senti, Massimo, non ho intenzione di litigare. >> Mio padre è sempre stato anche un pessimo bugiardo, a proposito.
<< Entra. >>
Un schiocco elettrico e secco annunciò l'apertura del cancello.
<< C'è anche mio figlio. >>
-------------------------------------------------------------
Se riporto pezzi troppo estesi, fatemi sapere: limiterò il resto.
Per ora ci troviamo ancora nelle prime intestazioni della faccenda; la mitologia dietro questo Movimento Culturale sarà spiegata meglio in seguito (sebbene non estesamente).
Sappiatemi dire anche se, nel leggere, vi sia capitato di avvertire il tipico sentore del "già visto, già sentito".
§Johan Razev§
----------------------------------------
"Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso" Gandalf
----------------------------------------
"Venite amici che non è tardi per scoprire un mondo nuovo.
Io vi propongo di andare più in là dell'orizzonte
E se anche non abbiamo l'energia
che in giorni lontani
mosse la terra e il cielo,
siamo ancora gli stessi,
unica eguale tempra di eroici cuori
indeboliti forse dal fato
ma con ancora la voglia di combattere
di cercare
di trovare
e di non cedere." A. Tennyson - Ulysses -
----------------------------------------
Veramente Immenso