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"Tentativo di romanzo ... in progress" by Johan (era: "Penso che questo possa essere un buon posto..")

Ultimo Aggiornamento: 16/03/2011 11:20
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06/12/2010 01:37
 
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..per esporre la "cosa", ed ottenere ottimi consigli.
Mi permetto di aprire questo topic, ed in questa sezione, perché non ho effettivamente idea di altri luoghi in cui poterlo fare.
Stavo rileggendo un paio di capitoli di un tentativo di romanzo che, da quando ho memoria scrittoria, tento di comporre. I capitoli di cui parlo sono l'ultima "riedizione" e reimpostazione della storia (ma che con la storia centrano solo marginalmente). Mi chiedevo quindi se potessi in qualche modo esporla a voi tutti, in cerca di puntuali critiche, sicuro di ottenerne di sincere e costruttive.
Ormai è passato un anno da quando ho messo mano a quelle carte e non mi è capitato di rileggerle nel tempo trascorso da quei giorni fino ad ora. E preferisco sia così, per partecipare con lo stesso "distacco" all'eventuale discussione e dunque all'aiuto che potreste porgermi nel sistemare lo scheletro storico-mitologico del "romanzo".
In fin dei conti il tutto si riduce alla duplice richiesta:
- è qui che posso postarlo?
- posso postarlo?
Ringrazio anticipatamente,

§Johan Razev§

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"Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso" Gandalf
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"Venite amici che non è tardi per scoprire un mondo nuovo.
Io vi propongo di andare più in là dell'orizzonte
E se anche non abbiamo l'energia
che in giorni lontani
mosse la terra e il cielo,
siamo ancora gli stessi,
unica eguale tempra di eroici cuori
indeboliti forse dal fato
ma con ancora la voglia di combattere
di cercare
di trovare
e di non cedere." A. Tennyson - Ulysses -
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Ben ritrovato, Johan!
Posta, posta pure!
Questo topic va bene ... e se non va bene lo sposteremo.
Sono molto curioso di leggere ciò che hai scritto e, per quanto possano valere, ti fornirò le mie opinioni e considerazioni in merito.
L'unica accortezza che dovrai usare sarà quella di postare un pezzo alla volta, non troppo lungo, (soprattutto) per facilitarci la lettura e (anche per) aumentare il livello di curiosità tra un post e un altro.
Attendiamo tue nuove.

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06/12/2010 13:51
 
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Re: ..per esporre la "cosa", ed ottenere ottimi consigli.
Johan, 12/6/2010 1:37 AM:

Mi permetto di aprire questo topic, ed in questa sezione, perché non ho effettivamente idea di altri luoghi in cui poterlo fare.
Stavo rileggendo un paio di capitoli di un tentativo di romanzo che, da quando ho memoria scrittoria, tento di comporre. I capitoli di cui parlo sono l'ultima "riedizione" e reimpostazione della storia (ma che con la storia centrano solo marginalmente). Mi chiedevo quindi se potessi in qualche modo esporla a voi tutti, in cerca di puntuali critiche, sicuro di ottenerne di sincere e costruttive.
Ormai è passato un anno da quando ho messo mano a quelle carte e non mi è capitato di rileggerle nel tempo trascorso da quei giorni fino ad ora. E preferisco sia così, per partecipare con lo stesso "distacco" all'eventuale discussione e dunque all'aiuto che potreste porgermi nel sistemare lo scheletro storico-mitologico del "romanzo".
In fin dei conti il tutto si riduce alla duplice richiesta:
- è qui che posso postarlo?
- posso postarlo?
Ringrazio anticipatamente,

§Johan Razev§




Aspettavo l´OK dell´Admin per dire la mia. Sono ansioso di leggere il tuo pezzo e pürometto che commenteró con tutta l´attenzione che un creativo e socio della Crew merita. Avanti Johan!!!

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Vi ringrazio nuovamente per la disponibilità.
Salterò la Premessa, la quale non ha nulla che riguardi la storia in sè - ma che è piuttosto una dichiarazione d'intenti - e su cui avrò molto da pensare ed altrettanto da modificare.
Passo quindi direttamente al primo capitolo, che a volte mi piace chiamare Epilogo, dato che si tratta dell'ultima conclusione dei fatti a distanza di millenni dal loro inizio. Il tutto sarà più chiaro in seguito.
Mi farà piacere leggere le vostre opinioni in merito. Spezzetterò in parti i capitoli per rendere il tutto più leggibile. [SM=g27811]

§Johan Razev§

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Capitolo I - Epilogo I
Ricordando in tranquillità


La mia memoria è molto selettiva, lo garantisco. E volubile.
Aspra lei scivola su fredde nomenclature e futuri ordinati in scadenze severe, e le organizza poi con inevitabile svogliatezza. Di quando in quando, delle une e delle altre ne finisce per perdere qualche d'una per la via, e di esse in seguito non ne sentirò più parlare. Non fraintendiamo, capita qualche volta che nomi generici, al soldo dello schema, ed un futuro in bell'ordine possano far comodo in certi casi di necessitata chiarezza. Sarà anzi proprio per questo motivo che ho deciso di iniziare usufruendo sia degli uni che dell'altro.
Oggi è un 12 dicembre assai poco invernale e molto freddo. Ho messo da parte qualche pensiero interessante da esporre con calma. Ho considerato accettabile il momento e la propensione d'animo per riportare, dico proprio oggi, e proprio qui, quel che mi è accaduto negli ultimi anni.
Devo ammettere che il tema di cui tratterò super per la maggior parte del tempo la mia partecipazione e comprensione, rendendomi un quieto osservatore (ho scritto quieto?) di eventi troppo grandi e troppo antichi per potermi permettere giudizi di sorta o rappresentazioni adeguate. Da questo ne era derivata una indecisione cocente su quanto fosse giusto rispolverare e assegnare pezzo a pezzo ogni parte al macchinario complesso e lasciarlo funzionare da sé, temendo che vecchie parole non riuscissero ad annunciare la novità compiuta.
L'altra settimana, comunque, ne parlai ad un amico editore, non il migliore e non il più fidato fra l'altro (sia di amico, che di editore), il quale cercò di persuadermi a buttare tutto su carta quasi non fosse cosa mia, quasi fosse necessario sbarazzarsene. Sto provando a dargli ascolto. Ma la mia memoria è molto selettiva, lo ripeto, e senza dubbio altrettanto caotica nell'apprendere i dati. Più ancora nel lasciarsi accarezzare da adeguate suggestioni.
Tutto quel che ho vissuto turbina nella mia testa quasi fosse un grosso spauracchio, impalpabile e denso, e seguendo la strada usuale che mi è cara, provo ora ad organizzarlo tendendo filo per filo la tela, acconciando la materia informe alla bell'e meglio per poterne io, in primo luogo, osservarne l'immagine completa. Sublime o spaventosa che possa essere.
Iniziare dalla conclusione ho creduto fosse il modo migliore per risvegliare con cura i ricordi agitati, lasciare il tempo affinché si potessero stiracchiare nel torpore, di modo che poi potessero raccontare la loro scena del dramma, offrendola ai miei occhi e lisciandola attraverso le mie mani. E la conclusione è che l'essere umano, in realtà, è rimasto sempre uguale a sé stesso, nella sostanza, e che così pure era accaduto per le culture di leggende e miti da lui generate. Egli si è limitato tuttalpiù a reinventarle, con nuove espressioni identificative e caratteristiche, quando pure restavano invariate nel concetto essenziale. Un'unica storia, quindi, molte volte raccontata, che parlava degli stessi princìpi, troppo astratti per essere fissati nel tempo e risultando nelle tentate rappresentazioni simile piuttosto ad un quadro cubista, che dipinge la figura da tante prospettive, sformandola nella sua ineffabile totalità che pure c'è, ed è reale. Lo spirito del tempo e la cultura diacronica di un popolo sono screzi, frammenti di specchi che catturano la luce per un momento e la riservano nella propria finitezza, sino a dove è possibile pensare, sino a quando è possibile credere. Ed è questo di cui parla ogni cosa umana, in fin dei conti. Ed è di questo che parlo io, adesso.
Nomenclature, dunque. E futuri ordinati.
Le prime, freddamente riportate, si nascondono nelle zone d'ombra dei secoli riassumendosi dietro le parole raegaiche di Conosairè Phailòs. Erano e sono in pochi a ravvivare il fuoco sotterraneo di questa che rappresenta l'unica rimembranza di ere scavalcate dal mondo, e dalla società, e dagli uomini stessi. La Conosairè è un tentativo ambizioso, una lunga attesa e la più spregiudicata sfida al tempo ed all'oblio.
I miei futuri ordinati, invece, tendono inevitabilmente al momento in cui verrà pubblicato un libro di Thomas Derry, uno dei rarissimi studiosi della Conosairè e mio grande amico. L'opera sarà intitolata L'Eco dei molti passati e, con ogni probabilità, verrà preceduta di qualche mese da un trattato in 66 punti dello stesso autore che riguarda il manoscritto Voynich di Ruggero Bacone e di cui in seguito avrò modo di accennare qualcosa. Lo scritto che io tento di compilare, qui ed ora, e quello che riporterò, hanno la pacata ambizione di essere un'appendice interpretabile di entrambi, una forse pericolosa anticipazione che solo a posteriori risulterà comprensibile a tutti gli effetti, quando lo studio dei simboli sarà edito e quel che qui è stato nascosto da altri si riuscirà facilmente ad astrarre.
Secondo le volontà dell'autore, entrambi i volumi dovrebbero essere pubblicati nei prossimi anni, a cura della Namasi Editrice, casa indipendente fiorentina. Fino a quel momento mi assumo le responsabilità di quello che qui verrà esposto, con le eventuali imprecisioni del caso.
Su un punto bisogna preventivamente chiarirsi. Cosa è la Conosairè Phailòs?
A tal riguardo si potrebbero spendere molte parole, Thomas ne ha compilato un intero libro, come dicevo. Io mi occupo invece di accennarla, adesso, e la definisco un passato, più che un presente, con carattere permanente, che registra nelle sue fila pochi uomini e molti eventi. E' un circolo di apprezzabili depositari del sapere trascorso. Personalità che garantiscono al tempo attuale le vestigia dei nostri antenati più antichi. Nonostante questo, non è individuabile come società segreta, senza dubbio. Gli adepti, che pure ci sono, o c'erano, seguono culti indipendenti che non ho avuto modo di conoscere in maniera approfondita (se pure una fonte accertata riporti l'esistenza di almeno uno di essi) ed invece i più risultano essere sostenitori, se così vogliamo chiamarli. E' una istituzione mai ufficializzata, che ispira inquietudine più che devozione per il carattere arcano che possiede per natura. Essa è l'ultima dimora degli Antichi Miti, dove vengono ancora esposti nella rigida Regola, per molti implicita, che ne aborre un qualunque cambiamento. E' un insieme di tante esperienze isolate di sopravvivenze mitologiche.
Se vogliamo adottare una definizione, la Conosairè Phailòs è l'insieme dei racconti ancestrali, intoccabili ed intoccati. Così come erano stati scritti nel buio del passato più lontano, in quello non considerato, non sospettabile e solo saltuariamente immaginato. Un'aspettativa certo romantica e rispettabile prevista dalla Regola di cui parlavo, che loro stessi chiamano “Via”.
Parlando con Thomas Derry sono venuto a conoscenza di alcune inaspettate coincidenze fra storia ufficiale e storia della Via, le più evidenti di esse al tempo del medioevo quando paradossalmente la cultura tendeva ad una generale opera di censura e quando dunque quel che non era ortodosso veniva facilmente scartato o, peggio, bruciato. La maggior parte delle restituzioni storiche accertate, infatti, sono giunte ai nostri giorni attraverso fonti più o meno estranee o addirittura contrarie alla Via ortodossa. Due personaggi significativi in questo senso e se non altro conosciuti ai posteri, di cui ho potuto visionare opere e citazioni grazie a Thomas, furono Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, nomi illustri della Scolastica medievale e, nello stesso tempo, i casi più rappresentativi dell'esistenza della Conosairè.
Dalle restanti esperienze sfuggenti rinvenute, risultava evidente allo studio una quasi o forse accordata mancanza di organizzazione della Conosairè. Le varie espressioni che la caratterizzarono ebbero probabilmente anche diversi punti di contatto ed incontro ma con ogni probabilità non interagivano mai in maniera sistematica l'una con l'altra. Esse piuttosto convivevano negli stessi tempi, in aree distanti, portando avanti una ideologia archetipica ed una dottrina comune nei termini e muovendosi alle spalle della testimonianza ufficiale alla stessa maniera, la quale significava, nella quasi totalità dei casi, l'essere ignorate dal mondo e perpetrando attraverso i secoli quell'elemento storico duraturo là dove il tempo non lo avrebbe scalfito, dietro la campana di vetro della Storia invisibile. La Conosairè si sviluppava a tutti gli effetti come un'insieme di tante esperienze isolate, impregnate di strenuo elitarismo. La Regola non ricercava la mera espressione testuale, né una forzata esposizione all'estraneo, che da molti esponenti della Conosairè veniva anzi visto come portatore di errore e mistificazione. L'appartenenza era per quei pochi che istintivamente avevano la giusta propensione d'animo ed una adeguata prontezza d'intelletto, e tutto questo si attualizzava in un contesto ben lontano da un qualunque tipo di pratica di iniziazione per chi desiderasse farne parte. Non fu dunque per caso che il mio amico mise la Conosairè in correlazione con i Rosa-Croce e con il loro studio esegetico del Liber Mundi, il Libro del Mondo, e conseguentemente con la società segreta che ad essa si ispirava, La Golden Dawn.
La ricerca e conoscenza oligarchica rosacrociana era naturalmente difesa, se pure nel tempo si hanno avute molte deviazioni che hanno poi sfociato in quasi altrettante deformazioni di pensiero, di cui la già nominata Golden Dawn potrebbe essere un esempio. Ancora Thomas Derry mi parlò di altri casi simili e fra essi quello più emblematico, perché divenne l'antesignano di altri movimenti ben più conosciuti e tragicamente noti: quello del professor Horbiger, colui che immaginò la Wel, cioè la Welteislehre, la teoria del ghiaccio eterno. Questa teoria sarebbe infatti derivata da una rifrazione e manipolazione di fonti disparate della Conosairè, le più evidenti sarebbero quelle della Fine dei Tempi, la Denè o'Aimee, tradotta in tedesco dall'unica fonte in antico inglese negli anni venti del XX° secolo secondo quanto mi riferì il mio amico, poi del mito di Nimess, la sorella oscura del sole, contenuto negli Scritti di Pefki, ed infine della caduta della Luna, da cui derivò con ogni probabilità l'idea di Horbiger dei molti satelliti che precedettero l'attuale Luna, ognuno dei quali dopo lungo tempo strinse la propria orbita attorno alla Terra per poi frantumarsi e precipitare nell'atmosfera, provocando grandi cataclismi ed estinzioni di massa. La Wel non solo causò una esposizione incoerente ed imprecisa delle proprie fonti originali, ma costrinse il vero valore nascosto del mito sotto l'onta del peccato, dietro gli ordini spaventosi che ne derivarono, dalla società segreta Thule alla religione del sangue di Rosenberg, dalla ricerca spasmodica di Hitler del Santo Graal a quella delle origini della razza ariana in Tibet, azioni ed ideologie che avrebbero animato il nazionalsocialismo e che quindi ne furono una espressione fondante.
Il peso della conoscenza e del male che poteva derivare da una sua incauta esposizione strozzava i rapporti con la comunità, lasciando i sostenitori della Conosairè alle proprie aule silenziose, isolati, salvaguardando la correttezza delle nozioni, la precisione delle conoscenze e l'esattezza del risultato.
“Erano diventati tanti piccoli tea-club per snob con la puzza sotto il naso”, mi diceva spesso Derry.
Immagino ancora adesso tanti vecchi di nobili famiglie decadute con lo sguardo arcigno, che si spostano solitari ed, incontrandosi casualmente, si riconoscono gli uni con gli altri per un carattere non evidente eppure loro peculiare, facendosi un cenno d'intesa per poi continuare ognuno per la propria strada, orgogliosi della storia che li unisce e che molti avevano magari dimenticato ma che essi avrebbero invece sempre difeso con rispetto e strenuo impegno.
E probabilmente il mio pensiero echeggiava di studi precedenti, di frasi come quelle di Serge Hutin, dottore in lettere, laureato all'Ecole Pratique des Hautes Etudes, il quale affermava: "Essi [i Rosa-Croce] costituiscono allora la collettività degli esseri che pervenuti ad un grado superiore a quello della comune umanità, possiedono così gli stessi caratteri interiori che permettono loro di riconoscersi". Thomas Derry studiò i rapporti fra i due movimenti invisibili sin dalla prima apparizione dei Rosa Croce, nel 1622, con risultati certo sorprendenti.
Che sia verificata questa corrispondenza, comunque, di quelle anziane personalità isolate e colte, dopo una lunga opera di ricerca, le curiose ed inaspettate pieghe della storia umana restituirono alcuni altri nomi. Nomi di persone, appunto, ma anche di opere e luoghi e tempi che si richiamavano gli uni con gli altri formando un intrico abbastanza complesso della corporazione della Via nella sua totalità spaziale e temporale.
Il più importante di ogni altro, almeno per il mio caso, fu Ibn Alef Pasham il Costruttore, dal cui impegno autoriale derivò anche il mio incontro con la Conosairè. Ma per arrivare a lui, bisogna partire da un'altra persona: mio nonno Michele, padre di mia madre.

Personalmente non ho mai conosciuto mio nonno, il quale morì mentre io compivo il mio secondo anno. Nonostante ciò, crescendo, mi sono imbattuto frequentemente nella sua figura e questo perché ho trascorso quasi tutte le estati della mia giovinezza nel paese di Massa di Toano, in provincia di Reggio Emilia, dove lui visse assieme a mia nonna Enrica per lungo tempo. Non ricordo che suono avesse la sua voce, ma i suoi libri, i suoi interlocutori se vogliamo, furono anche i miei. E loro mi parlarono anche di lui, senza dubbio.
La libreria che aveva organizzato in cantina era molto specializzata. Non possedeva un gran numero di opere, questo è vero, ma quelle che stanche si appoggiavano le une alle altre sulle mensole corrose dai tarli, erano ben tenute e di un argomento limitato nella sua immane generalità: mitologia.
Fra queste poi, una in particolare pareva concedersi con slancio ad un desiderato lettore, quasi gettandoglisi addosso dall'ultimo scaffale in alto, proprio dal mezzo, dietro ad un vecchio binocolo ed una pietra raccolta chissà quando, chissà dove. Grande ed imponente, quel volume recava sul dorso il titolo dorato “Leggende dell'Appennino Tosco-Emiliano”.
Con sincerità non ricordo se lo avessi già letto, tutto o in parte, prima di compiere sedici anni. E se ciò accadde in ogni caso non ne serbo alcun ricordo. Quando però lo sfogliai in quello strano 14 novembre, era il 2002, e mi prese a tal punto che finii col portarlo sempre con me, quasi fosse una via sicura verso quel che stavo cercando. E che volevo trovare, ovviamente.
Non vi era segnalato il curatore o i curatori, e solo dopo qualche anno provai ad ipotizzare fosse stato mio nonno in persona ad aver raccolto con impegno tutte quelle storie che parevano uscite fresche fresche da una bocca anziana e saggia, in una gravida giornata di memorie sui monti, sotto il richiamo della gazza che sfreccia nel cielo, dove l'aria sussurra e consiglia e la mente accoglie ed ascolta.
Sono stato molto tempo su quelle pagine ingiallite e potrei riportare qui ed ora capitolo dopo capitolo, pagina dopo pagina, talvolta parola dopo parola quel che tante volte vi lessi: la giovane donna del pozzo di Manno, ad esempio, che bianca nei suoi veli chiedeva aiuto con voce spettrale e cantilenante; oppure il diavolo cornuto della Veggia, scacciato da una manciata di terriccio umido, scomparendo in una fiammata. Altri, più frivoli, come la storia del guardiano del cimitero di Massa che rimase chiuso per errore nel camposanto finendo per spaventare due ignare signore che a sera inoltrata passarono da quelle parti. "Raccogliere le parole è una prova di resistenza alla manipolazione, rende fisse le storie che non lo furono mai per intero e che dovettero spostarsi come popolazioni lungo vie umane, crescendo ed invecchiando. Queste storie sono come fotografie di un uomo che fu un tempo giovane e che ora è vecchio e balbetta." [Autori Vari, Leggende dell'Appennino Tosco-Emiliano, Curatore sconosciuto (Reggio Emilia: Ed. Sic&Greta, 1979), p.2]
Curiosamente, però, nella lunga elencazione di personaggi ed episodi ce ne erano tre che nominavano un luogo ben preciso eppure a me assolutamente sconosciuto: Nuovo Rosso.
Cercai di documentarmi quanto mi fu possibile, e non trovai di meglio che supporre qualche correlazione fra il Monte Rosso vicino a Cà Rabacchi ed il paese di Castelnovo ne' Monti. Ovviamente lo studio subì un arresto e solo dopo molto tempo capii che ero totalmente fuori strada.
Le tre leggende ambientate a Nuovo Rosso narravano di uno stesso personaggio, "Re indiscusso delle Alture"molti anni fa, quando evidentemente nessuno dei paesi oggi esistenti era stato ancora edificato. Quel Re aveva nome Fosso e dopo lunghi anni di pace con i popoli della pianura, intraprese contro di questi una guerra interminabile per vendicare la morte dei suoi tre padri. Quello naturale, ucciso quando Fosso era ancora in fasce per mano di un uomo di nome Lauro, il quale poi costrinse la Regina Madre a scappare con il figlio sulle alture confinanti, e quelli adottivi, che rappresentarono la crescita umana del Re, esiliato lontano dalla propria terra, prima lasciato alle cure di un pastore di capre e poi a quelle di un eremita dei boschi. Con vicende alterne, infine, Fosso guadagnerà l'occasione di tornare al proprio regno per assumerne la guida.
Ognuna delle storie ricorda della guerra perpetrata ai danni dei popoli della pianura (verosimilmente potevano essere i Pelasgi, o magari gli stessi Etruschi-Villanoviani) in nome di uno dei tre padri: Daio, quello naturale, Sino e Gheso, quelli adottivi.
I racconti erano i più lunghi della raccolta e venivano relegati in conclusione, in una sorta di allontanamento progressivo dalla materia originaria. Quasi fossero miti che insieme appartenevano ed esulavano dall'area presa in considerazione. In questo, almeno, ebbi la giusta intuizione.
In aggiunta a ciò Ibn Alef Pasham il Costruttore e la sua opera dal titolo in latino De Unicitate Rerum Deorum venivano segnalate come uniche fonti delle tre leggende, e se un occhio poco attento o inesperto (o poco interessato alla bibliografia) non poteva suggerire alcuna soluzione, la sua particolarità mi convinse a continuare su quella strada. Era se non altro curioso che un nome tanto esotico fosse la fonte autorevole per una leggenda emiliana tanto antica. L'idea della falsificazione era per una mente più maliziosa di quanto non fosse la mia, in quel periodo. Mi documentai quindi riguardo a Pasham ma la ricerca fu abbastanza infruttuosa devo dire. Era come se Pasham non fosse mai esistito o magari, come mi decisi a pensare con una certa emozione, nessuno gli aveva ancora tributato il giusto merito per quelle leggende che sapevano di magia straniera ed insieme collettiva, unificatrice.

Per molti anni il mio personale e curioso mistero rimase irrisolto ed io ne attesi in un inconscio sonno inquieto una risoluzione che tardava, tanto più a lungo che finii per dimenticarmene. Almeno fino a quando l'eredità invisibile passò nelle mani di mio padre, il quale aveva sviluppato da tempo una passione molto vicina a quella del suocero e, a quanto mi disse, anche del proprio padre. Ed io con lui, dato che quegli interessi scorrevano anche nella mia mente di novizio.
Vedevo un gran numero di opere di molti generi fare un vivace carosello per casa. Quadri un giorno, libri il successivo. E nel mentre che io continuavo gli studi, e dal liceo passavo all'università di lettere a Parma, avevo ormai udito il nome dell'antiquario Massimo Carinardi molte volte. Ottime erano le impressioni di mio padre per quello l'uomo aveva in casa e le molte nozioni che egli sembrava possedesse nel campo dell'arte in generale. Non fu dunque per caso che mi lasciai convincere a mostrargli il libro, se tanto desideravo avere qualche informazione a riguardo.
Fosse stato per me, certo, avrei più volentieri ascoltato il parere di qualche professore, di cui almeno conoscessi il viso e di cui possedessi un preciso recapito pubblicamente accessibile. Che quindi avrei potuto tutt'al più raggiungere a Parma, in un quarto d'ora di treno, e non alla periferia di Verona, ad un'ora e quaranta di macchina.
Considerando d'altra parte che nessuno dei professori a cui accennavo sembrasse conoscere anche solo il nome di Ibn Pasham e che inoltre non mi fosse ignoto che Carinardi stimasse mio nonno come grande amico, accettai di chiedere il suo parere. Si poteva addirittura sospettare, mi dissi, che fosse stato lui il reale proprietario del libro che così a lungo mi aveva tenuto compagnia. La sua libreria, infatti, assumeva sfumature leggendarie a sentir parlare mio padre e cominciavo a credere che ogni libro scritto o copiato di questa terra fosse passato almeno una volta per quegli scaffali.
La mia intuizione fu senza dubbio geniale.
Lasciai che mio padre lo portasse da Carinardi, e da quel viaggio non tornò più indietro. Il libro, intendo. L'antiquario pretese per sè quel che affermò esser sempre stato di sua proprietà e che, a quanto pare, mio nonno aveva pensato bene di tenere per qualche tempo, giusto lo spazio di qualche decennio insomma.
Dopo una breve battaglia verbale portata avanti per telefono, le comunicazioni vennero interrotte. Il vecchio era un burbero sofista dei tempi di Socrate e la prima parola che gli sentì pronunciare fu: No. A dire la verità anche la seconda. La terza, se non erro, fu un "basta". Del resto non potevo fare molto, da dietro ad una cornetta. E tale era anche l'opinione mio padre, che nel frattempo stava contrattando per un affare di più alta levatura, ormai arenato da settimane nell'assoluto mutismo dell'antiquario.
L'idea che Carinardi non si fosse mai fatto vivo prima per riavere quel libro, soprattutto dopo la morte del nonno, era ben presente nella mia mente quando mi misi in macchina assieme a mio padre, ognuno armato del proprio proposito, in direzione di Verona.
Guidava mio padre.
L'attaccamento dell'anziano collezionista all'antica creatura di carta stampata fece nascere in me più di qualche semplice speranza sulla reale importanza dell'opera e su quello che dal suo proprietario avrei potuto sapere.
Era un sabato pomeriggio ed era inverno. Doveva essere dicembre.
L'auto filava, immersa nelle onde del blues di Robert Johnson che tratteggiava all'orizzonte la città di Chicago, scura e tremula, frastagliata dietro l'impressione di un miraggio.
Mentre l'autostrada scorreva sui lati, mio padre raccontò quel che sapeva di Massimo Carinardi, l'antiquario. La famiglia di questi era molto antica e molto ricca, fattore che gli semplificò di molto la vita scolastica. All'Università studiò lettere, anche se non discusse mai la tesi di laurea. Personaggio molto originale, le cui passioni artistiche avevano scavalcato facilmente quelle umane, cosa che lo costrinse ad una vita per lo più solitaria.
<< L'arte. >> sillabò mio padre, sventolando in aria una mano. << Un museo dietro i rovi, il suo. Vedrai. >>
Venni a sapere che Carinardi era stato amico anche del padre di mio padre, Walter Verza, con cui smise di avere rapporti in un momento non meglio precisato degli anni Ottanta. Per problemi economici, a quanto pare. Vi era stato sicuramente un periodo in cui i tre si scambiavano reciprocamente una fitta corrispondenza.
Come entrambi i miei nonni, mi venne spiegato, Massimo Carinardi aveva combattuto sul fronte greco-albanese durante la Grande Guerra e fu proprio là che conobbe Walter, in quanto paziente di quest'ultimo, il quale era medico da campo.
Al contrario, non seppe mai con precisione quando iniziò i suoi rapporti con Michele.
<< Probabilmente al tempo del mio matrimonio >> mi disse, in maniera disinteressata.

Giungemmo al cancello quando il sole stava cominciando a declinare verso ovest. Il pomeriggio di quei giorni era breve e smorzato.
Avevo potuto vedere Verona solo un'altra volta, per una gita scolastica, molto tempo prima, e non avevo modo di sapere dove ci trovassimo in quel momento. Le mie conoscenze si fermavano a poche vie che sbrecciavano le case fuggendo al cospetto dell'Arena, dopotutto. Qualche immagine, anche, scherzi con gli amici ed un profumo intimo di un qualche ristorante. Null'altro.
Doveva essere un quartiere della periferia. Era poco affollato ed un po' inquietante. La villa non avrebbe potuto essere più caratteristica ed emblematica dei costumi della persona che vi abitava, circondata com'era da quell'aura bucolica tipica dei vecchi troni dell'arte selvaggia. Statue artificiose e bianche, ma sporche. Inflessibili, sebbene indifese nei confronti della natura verdeggiante che le divorava pian piano e le rendeva così beatamente prigioniere. Era un crescendo di silenzi, lì attorno. Raggiungeva parossismi di nulla assorto, osservati da vecchie ante di finestre la cui vernice scrostata sussurrava passate ferite di incuria. Un mondo interno, ecco cosa sembra. Una rappresentazione della mancanza d'esteriorità, tutto interiorizzato e accartocciato su sé stesso nella decadenza superficiale. Una fontana sputacchiava acqua al cielo, dietro ad un salice piangente. La villa si nascondeva, ti guardava curiosa sciogliendosi dal proprio bianco all'oscurità delle ombre, lì dove il sole si faceva desiderare. Il viale che accompagnava alla scalinata d'ingresso era maleducato, molte lastre sporgevano.
Da qualche parte una macchina rombava, ma pareva piuttosto il rumore involontario di una modernità strappata dal reale che lasciava ora il posto al perenne morente che mai scompare. Quasi invisibile, sopra i battenti del portone lontano, capeggiava una scritta incisa: Mane Thecel Phares.
Ebbi l'impressione di aver già vissuto quella scena e credetti con sicurezza di aver letto da qualche parte di una villa simile. Un brivido mi percorse la schiena perché avevo la poco rassicurante certezza che nell'altro caso le cose fossero finite davvero molto male.
Mio padre si avvicinò alla cancellata e suonò il citofono. Affidò uno sguardo iroso alla piccola videocamera di sicurezza che c'era lì accanto. Da dietro le sbarre arrugginite gli indicai una bellissima Porsche Carrera parcheggiata sul ghiaietto, davanti al garage. Lui annuì con un sorriso incerto e suonò di nuovo. L'auto stonava con il senso di temporaneità passata e perpetua dell'ambiente in cui era immersa. Suonò una volta ancora.
Qualcuno infine rispose, dopo quei ripetuti assalti ed un crescente nervosismo. Mio padre non è mai stato una persona calma e pacata.
<< Umberto... >> Chiunque avesse parlato, non pareva affatto sorpreso. E se pure ci aveva visti, sembrava avermi ignorato del tutto.
<< Senti, Massimo, non ho intenzione di litigare. >> Mio padre è sempre stato anche un pessimo bugiardo, a proposito.
<< Entra. >>
Un schiocco elettrico e secco annunciò l'apertura del cancello.
<< C'è anche mio figlio. >>

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Se riporto pezzi troppo estesi, fatemi sapere: limiterò il resto.
Per ora ci troviamo ancora nelle prime intestazioni della faccenda; la mitologia dietro questo Movimento Culturale sarà spiegata meglio in seguito (sebbene non estesamente).
Sappiatemi dire anche se, nel leggere, vi sia capitato di avvertire il tipico sentore del "già visto, già sentito". [SM=g27828]

§Johan Razev§

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"Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso" Gandalf
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"Venite amici che non è tardi per scoprire un mondo nuovo.
Io vi propongo di andare più in là dell'orizzonte
E se anche non abbiamo l'energia
che in giorni lontani
mosse la terra e il cielo,
siamo ancora gli stessi,
unica eguale tempra di eroici cuori
indeboliti forse dal fato
ma con ancora la voglia di combattere
di cercare
di trovare
e di non cedere." A. Tennyson - Ulysses -
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Ah, però!
E' un sacco di roba da leggere!
In serata mi ci dedicherò!

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Ma certo, figurati.
Non c'è alcuna fretta; quando vorrete e potrete.
In queste ultime notti, forse complice l'aver scavato nuovamente fra appunti dedicati a questi primi capitoli, mi stanno venendo altre idee per far maturare la storia in modo tale che risulti interessante ed accattivante.
Ma è difficile ottenere l'effetto in un mondo dove tutti hanno letto Dan Brown e pochi hanno letto "Il Pendolo di Foucault" di Eco..eheh

§Johan Razev§
[Modificato da Johan 10/12/2010 20:19]

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10/12/2010 23:59
 
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Ed io te lo stavo per dire! Prendilo come un complimento, ma Eco si sente parecchio (che gioco di parole orribile). É proprio nella struttura della frase , la scelta dei nomi, nei riferimenti al mito.
:)


Non mi stupirei se uscissero fuori riferimenti alla Kabballah ebraica, ai sufi, ad Ibn Sinna/Avicenna, ad Abulafiah !
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Ti ringrazio davvero.
In effetti l'idea è proprio quello di far conseguire alla mitologia originaria del romanzo, le varie mitologie mondiali. Da ciò ne deriva una ricerca di quei caratteri che sono topici delle culture antiche. Giusto l'altro giorno pensavo, ad esempio, al tema del capro espiatorio. Rivisto, talvolta, è qualcosa che aggancia varie parti del globo. Diciamo che l'intento basale sarebbe quello di fare un lavoro "filologico" sulla mitologia; usare una specie di metodo di Lachamann per riunire le famiglie di "errori" (in questo caso, di stesse credenze o riti) per riformare un archetipo originario che poi sarebbe la mitologia del mio mondo.
Il problema fondamentale è che uno studio simile richiede più tempo di quanto io ne abbia vissuto...ahahah

§Johan Razev§

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27/12/2010 13:32
 
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Seconda parte
Il giardino era molto evocativo e fu inevitabile per me immaginarmi là, steso al sole, se mai lì avesse battuto a qualche ora del giorno, a leggere un bel libro o a scrivere pagine segrete. Invitanti panche di marmo si rincorrevano in maniera ordinata lungo il vialetto ed infine si perdevano dietro la siepe che doveva nascondere altre bellezze accanto alla villa.
Camminammo fino all'ingresso, il quale si alzava alla sommità di tre gradoni, tenuto a guardia da due vasi su cui qualcuno piantò gerani rosa, ora sul punto di seccarsi e morire. E che parevano piuttosto due terrificanti gargoyle.
Carinardi sostava sulla porta socchiusa. Indossava una vestaglia da camera con una mantellina, e portava ai piedi due calde pantofole. Teneva la testa piegata, verso l'interno della casa, quasi fosse sul punto di rifugiarvisi. Un paio di sopracciglia cespugliose nascondevano occhi acuti ed affilati, sostenuti dalle borse della vecchiaia e della stanchezza. I capelli non pettinati gli sfuggivano attorno alla testa rachitica, e mi diedero l'idea di tende vetuste strappate dagli anni.
Ci sorrideva, facendo molti cenni con il viso per spingerci ad accelerare il passo.
<< Prego. >> Disse, quando fummo vicini.
Il corridoio che si allungava nel buio della casa ci accolse con poco garbo, e nell'aria si odorava un penetrante odore di muffa e di silenzio. In alcune case, e sono tutt'ora convinto di questo, è l'odore stesso del silenzio a farle da padrone. Un sapore che sa di umido e stantio. Se poi mischiato agli aromi di gommalacca, acetone, cera d'api e vernice, come in quel caso, ispirava l'impressione di essere nella bottega di un pittore d'altri tempi, che ora ci stava conducendo verso il suo laboratorio per esporre le ultime tele e soddisfare i propri mecenati.
Molti dipinti, non suoi, si mostrarono alla tenue luce elettrica che scimmiottava quella ad olio del secolo scorso e molti volti mi guardarono passare, forse incuriositi dal nuovo movimento. Una vecchia barba, una fronte spaziosa. Di nuovo il buio.
Girammo a destra, seguendo Carinardi, e ci trovammo in un nuovo locale decisamente meno formale e più accogliente. Il fuoco, che bruciava nell'immenso camino al centro del muro adiacente, ci solleticava il viso con il proprio calore. Di fronte alle fiamme si allungavano divani invitanti con cuscini variopinti. Mi persi a pensare dove finisse la collezione e dove iniziasse il mero utilitarismo domestico.
Massimo Carinardi si mise a sedere su una sedia di legno scuro stile Luigi Filippo, accanto ad una scrivania appoggiata alla parete. Ci indicò i posti di fronte a lui, sul divano.
Lo immaginai ad accendersi una sigaretta portatagli da qualche avventuriero, in qualche avventuroso modo, da un luogo improbabile ed impronunciabile dell'altra parte del pianeta. Al contrario rimase a fissarci per un po', dopo che ci fummo accomodati.
Esordì improvvisamente, fiacco:
<< Era mio già al tempo del matrimonio di Michele e l'Enrica. Ben prima di conoscermi, quindi. >>
Mio padre non intese immediatamente a cosa si stesse riferendo. Mi guardò. Io ero attento e non parlavo, pure se avevo una tremenda voglia di farlo.
<< Suppongo non si stia parlando del quadro. >>
<< No. Del libro. >>
A quel punto le parole mi sfuggirono di bocca.
<< Perché non è venuto a riprenderselo? Se non fosse stato per noi... >>
Venni interrotto da Carinardi che alzò una mano, di scatto. Mi rivolse una lunga occhiata inquisitoria.
<< Non fosse stato per voi avrei continuato a pensare quel che tuo nonno mi aveva portato a pensare. >>
Rimasi in silenzio, richiedendo implicitamente una qualche altra spiegazione.
<< Questo libro non vale nemmeno un millesimo di quanto dovrebbe valere. >>
Non intesi il senso di quell'affermazione, per cui volsi lo sguardo in direzione di mio padre che pareva stesse riflettendo. Non disse nulla.
<< Se siete venuti per riaverlo, comunque, sappiate che non vi è alcuna possibilità che accada. E' mio, e lo credevo perduto. Ora che è tornato da me... >>
<< Mio figlio non lo rivuole. >> Disse mio padre, in maniera inaspettatamente pacata e conciliante. << E' interessato piuttosto a conoscere qualcosa che va al di là di chi sia il legittimo proprietario. Del resto, nulla è di nessuno in verità. A parte la conoscenza. >>
<< Chi è Ibn Alef Pasham il Costruttore? >> Domandai, appena mio padre ebbe finito di parlare.
Carinardi mi guardava senza mostrare alcuna reale espressione. Pareva intrappolato nel presente infinito dell'immobilità, così come lo erano le sue statue ed i suoi quadri. Solo il tamburellare delle dita sul pomo all'estremità del bracciolo dimostravano la sua esistenza temporale.
Era come se stesse valutando qualcosa. Una decisione importante e nobile, come quella degli dèi quando mostrano giustizia inappellabile e sublime. Era fermo e severo. Mi guardava da molto lontano.
<< Tuo nonno. Tuo nonno lo sapeva. >>
Disse solo questo.
Smise di tamburellare con le dita e si alzò in piedi. Guardò mio padre e gli chiese cortesemente di seguirlo nell'altra stanza.
<< Parliamo del Moll, adesso. >> Concluse.
Mio padre mi osservò, calmo. Dopo aver ricevuto una mia conferma, che gli rivolsi con un cenno del capo, raggiunse Carinardi alla porta che si apriva esattamente dirimpetto a quella da cui eravamo entrati.
Parlarono per circa un'ora e mezza, tempo che io trascorsi a catalogare con la mente alcune opere che il collezionista teneva con cura sulle mensole della libreria che occupava l'intero lato della sala, opposto al camino. Tutti i libri erano chiusi a chiave dietro vetrate giallastre e più volte ponderai con serietà l'idea di sfondarle e fuggire con qualche mirabile ostaggio.
Come fossero stati arruolati, Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, Verlaine, erano tutti disposti su file marziali ed ordinate. Lì stava la poesia dei maledetti e con loro ancora Chatterton e Campana. Un contingente di autori immani e straziati, colti nella loro forza e strozzati nel limite di pagine imbrattate e sezionabili. Comparai la libreria pacchiana che avevo nella stanza da letto con questo mastodontico ed enciclopedico tesoro della memoria letteraria. Salgari ruggiva da qualche parte, e Melville incideva la carena di una barca di legno ed inchiostro. Milton se la vedeva con le visioni di Shakespeare (e non meno con quelle di Blake), e poi Marlowe, ed il teatro elisabettiano tutto mi chiamava al cospetto dei grandi passati e dei più recenti, di Jarry, Artaud, Pinter. Era un ritorno d'eco continuo, di mille lingue urlate, d'esplosioni e spari, esclamazioni e preghiere.
La nostra letteratura raccontata da grandi nomi in finiture d'argento, si inseguivano l'Alberti e Boccaccio, Dante e Petrarca, su su fino a Gadda e Pasolini. Intere catalogazioni in ordini perfettissimi ed intoccabili, che parevano una lunga catena indissolubilmente legata alla propria storia. Una rappresentazione, più che una lettera reale, che viveva una propria esistenza dall'altra parte del vetro, senza che mani estranee la potessero importunare o potessero rovinare quella perfezione in divenire, perché solo altri ne poteva aggiungere senza mai perderne.
Ero atterrito di fronte alla lunghissima ed unica parola della letteratura mondiale. Era un maestoso serpente che si dibatteva in aporie, ed in contrastanti sensazioni ed opinioni, vicissitudini, catastrofi e composizioni.
Un serpente con troppi occhi e troppe bocche per parlare. Che sibilava qualcosa oltre il vetro.

Mio padre ed il suo ospite uscirono dalla porta sorridendo. Avevano trovato un accordo di cui non sapevo nulla e di cui non molto mi interessava, ma che riuscì a distogliermi dall'ultimo appello alla mia irrazionalità.
Quando fummo di nuovo all'ingresso declinammo gentilmente il suo invito per rimanere a cena ed uscimmo all'esterno. Ci bloccò affermando che ci sarebbe stato il tempo per una visita al resto della villa, se avessimo acconsentito a rimanere, e così dicendo ci indicava il sentiero lastricato che scompariva dietro la siepe di lauroceraso. Ci descrisse un lungo passaggio in mezzo a piante e statue in attesa, fino ad una stalla per cavalli dove teneva anche un bellissimo purosangue inglese che lui chiamava Allan.
<< Ma non gli piace molto il vino. >> Scherzò, mettendosi poi a ridere in maniera sguaiata.
Vicino alla stalla c'era anche un piccolo maneggio e poi una larga distesa recitata.
Descrisse sommariamente dove lui preferiva andare a cavallo, nominando senza distinzione luoghi e monti a noi ignoti, intrecciandoli con altri che conoscevamo. Disegnava una cartina immaginaria con le dita, quasi ne parlasse per la prima volta con l'emozione della scoperta.
Ci disse che le colline della Valpolicella erano perfette per andare al passo con Allan, ma che si potevano seguire sentieri stupendi soprattutto nel verde dell'entroterra gardesana, nei boschi del Baldo, lungo il Mincio o l'Adige. Parlò di un giorno in cui andò alle pendici meridionali del Monte, a est del lago di Garda, fino a Prada Alta. Mi apparve come un giovane innamorato. Ci parlò della fiera del Cavallo a Verona e di molte pubblicazioni recenti o più antiche sull'argomento. Mi costrinse anche a segnarmi il nome di Federico Caprilli.
Non fosse stato per la decisione di mio padre, che salutò frettolosamente e mi trascinò al cancello, avremmo probabilmente trascorso l'intera sera sulla porta.
Il viaggio di ritorno fu meno teso e ci rilassammo ascoltando del buon prog degli anni sessanta, permettendo all'intera discografia dei King Crimson di snodarsi dagli altoparlanti, vibrando in un crescendo cortigiano, e di accompagnarci lungo l'autostrada. Il sole scendeva sempre più in fretta.
<< Cosa è il Moll? >> Domandai.
Mio padre superò in velocità un Tir e si mise sulla corsia di destra.
<< Un quadro che Carinardi ha comprato per conto mio. Dovrebbe arrivare a giorni. E' una deposizione. Non molto bella, fra le tante che ho visto. Colori sciolti, i bordi molto rovinati. Deve aver avuto una storia travagliata e non credo che il suo autore, David Moll, si sia molto impegnato nella sua realizzazione. >>
<< Come mai la vuoi, allora? >>
<< E' per mio padre. A lui doveva essere piaciuto molto. >>
Lo guardai di sottecchi, in quello che sembrava essersi trasformato in un classico momento di imbarazzo. Era raro poterlo ascoltare a quel modo, strano vederlo sotto quella luce di figlio rispettoso delle volontà di un padre morto da tempo.
<< Lo vedrò volentieri. >> Dissi, spostando poi lo sguardo all'esterno.
In un'ora e mezza fummo di nuovo a casa. La cena era quasi pronta.
Salii in camera qualche momento, per cambiarmi, e l'occhio mi cadde sulla libreria. La maggior parte delle opere che avevo lì ordinate mi apparivano ora troppo nuove e troppo false. Troppo lontane dall'opera prima che le forgiò, figlie commerciali di un mostro meccanico che produce in serie e stampa in caratteri standardizzati opere immortali.
Scesi al pian terreno ammantato di un recalcitrante senso di distanza.
Mangiai solo.

Per l'intera settimana ripensai all'incontro con l'antiquario come a qualcosa di inconcludente ma non definitivo. L'attesa prima della sentenza, pensavo, sembrava preludere a qualcosa. Non sapevo di cosa si trattasse ma decisi di aspettare con fiducia.
Il sabato seguente mi svegliai tardi e raggiunsi la mia famiglia in montagna, partita per Massa la sera precedente, assieme a mia nonna Enrica.
Viaggiai con mio fratello più piccolo, Paolo, ed arrivammo per l'ora di pranzo. Fummo accolti dal cielo terso sopra i monti ed un sole che non riscaldava, ma che brillava testardo.
Entrati in casa ci immergemmo nell'aroma della tavola imbandita, mentre mio padre si nascondeva oltre il divano, davanti alla televisione, e mia nonna aveva già preso posto a capotavola ed armeggiava con un tovagliolo. Un gatto nero ci sorprese da sotto i tavoli. Si scoprì essere l'ultimo arrivato in famiglia, il quale già prendeva confidenza con l'ambiente e si gustava il caldo della stufa, di contro al freddo dell'esterno.
Mio fratello più grande, Antonio, ci raggiunse dopo qualche minuto, sedendosi con le spalle alla porta-finestra che dava sul basso terrazzo dalla parte della strada.
La giornata sfumò velocemente nella sera, fra chiacchiere e passeggiate. E poi nella notte.
Prima di dormire, un po' assordato dalla stufa elettrica che brontolava sommessamente vicino al letto, ripensai di nuovo alle parole di Carinardi e per un attimo respirai qualcosa di diverso nell'aria. Decisi che sarei tornato da quell'uomo al più presto e che gli avrei chiesto ancora qualcosa. Mio nonno del resto era morto, e mia nonna nemmeno aveva idea ci fossero libri del genere fra quelli del marito, non che non avessi comunque provato a chiedere. L'unico che poteva aiutarmi era lui, l'unico a sapere quel qualcosa che mi serviva.
Mi addormentai più sereno.
La domenica trascorse con dolorosa velocità, accompagnata da una lunga carovana di ospiti e trambusti per casa, come al solito.
Mio padre e mia madre furono i primi a tornare a Reggio, appena dopo cena, seguiti di lì a qualche ora da Paolo ed Antonio. Io rimasi a Massa con la nonna e la sua badante, progettando di tornare in città tre giorni dopo.
Non sapevo che invece vi sarei rimasto molto più a lungo.
Nella sera di quella domenica, quando in casa eravamo ormai rimasti in tre, anzi quattro compreso il gatto acciambellato sulla poltrona, l'atmosfera all'esterno mi invitò ad uscire per una passeggiata sotto il cielo, che a quelle altezze e soprattutto in quel periodo appariva più grande di quanto non sembrasse dalla città, là dove i tetti lo spezzavano, in mezzo a quelle costruzioni umane che si arrabattavano per raggiungere sovrumane altezze. Quelle che erano vanità mortali, idoli transitori.
Le stelle mi circondavano. Mi stringevano, quasi. La volta si appoggiava sui monti e si confondeva con loro, sfidandomi a comprenderne i veri confini. Luci immortali e luci umane, queste ultime mere imitazioni che però assumevano con serenità un cosciente piglio d'attesa, rimanendo in silenzio ad adorare le loro sorelle immortali e belle. Io respiravo l'aria, che era gelata. E tremavo. Il vento mi sconvolse i capelli portando con sé un rumore di fondo, tanto pacato, tanto deciso che ebbi l'impressione di coglierne il significato e che probabilmente affermava soltanto: io sono qui da prima del tuo respiro di fumo.
Quando tornai a casa assaporai il calore della stufa che ancora bruciava la legna. Mia nonna era di fronte alla televisione e di lì a poco avrebbe dovuto prendere l'ultima medicina che avrebbe anche battuto con precisione le 22.30, l'ora del letto, per lei.
Le sedetti accanto e le diedi qualche bacio e qualche carezza.
Qualcuno parlava dalla scatola al tubo catodico ma non ricordo chi fosse.
Mia nonna infine si allungò a prendere la medicina e la badante la aiutò ad alzarsi. Dopo un lungo preparativo fu pronta per andare a dormire, ed io rimasi solo.
Accesi il computer portatile, zittendo la voce alla tv. Altro mi saettava davanti agli occhi e volevo dare ad esso una forma scritta, più pura. Forse più che altro ordinata. Tradotta, anche, e costretta ai lati dalla necessità d'essere comprensibile. Fuori scorreva tenacemente la notte con i suoi versi ed i suoi richiami. Iniziai a battere con le dita sui tasti delicati della tastiera parole come segnali, luci intermittenti verso un senso ancora incompleto.
Scrissi. A lungo. Scrissi quel che era il mio più caro rifugio dal mondo e che di esso parlava, nei termini della propria aspettativa, delle soggettive valutazioni e dalle alterne vicende. Spinsi, per l’occasione, il rosso divano più vicino alla stufa, che da piccoli spiragli rivelava il fuoco che ardeva all’interno.
Nella mia mente vedevo cose lontane e vicine. Pensavo alle persone perdute, a quelle trovate, alcune per troppa fortuna ritrovate, ed anche alle persone, chissà quante, chissà come e chissà dove, che ancora non m'era capito di incontrare. Descrissi quanti di loro la mia immaginazione poteva rendere la sagoma fuggitiva, fluida sulla code dell'occhio. Mi si avvicinavano come un pubblico incuriosito dallo spettacolo di un artista di strada, tendevano il viso, giusto il tempo perché io ne ritraessi un dettaglio, che fosse un occhio, o un labbro, e poi tornavano nel nulla della folla immane che li confondeva tutti.
Ero avvolto nel caos dei flebili sospiri e, con mia grande soddisfazione, da un profondo silenzio di voci.
----------------------------------

Qui in realtà c'è poco da recensire. Dovrò fare vari cambiamenti, per una qualità narrativa che non mi soddisfa assolutamente.
Ma è necessario passare da qui per continuare con il resto. [SM=g27827]

§Johan Razev§

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Eccomi!
Ho finalmente letto tutto! Confesso in tutta sincerità che sono rimasto piuttosto disorientato, soprattutto dalla prima parte, e credo di aver bisogno di rileggere una seconda volta alcuni passaggi per capire bene come siamo improvvisamente giunti alla narrazione che riguarda "Il Libro" e che caratterizza l'ultima parte (ultima riferito al brano postato, ovviamente).
Ad ogni modo voglio il resto!
Accidenti, sono curioso e voglio il resto!
Vai Johan, posta un altro pezzetto!

P.S.
Ammetto di preferire l'Eco de "Il nome della rosa" a quello de "Il Pendolo di Foucault" ... ma Dan Brown lo lascio più che volentieri agli altri!

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27/12/2010 15:34
 
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mhh..dici che c'è uno stacco troppo confusionario fra le due parti?
Lo sto rileggendo anche io, e mi è venuta in mente una critica simile. Come se l'inizio rappresentasse una specie di anticlimax, un lungo discorso che già parla della Vox che poi si blocca per ricominciare daccapo. Non vorrei smorzasse l'interesse e, appunto, disorientasse il lettore.

Ho postato la "seconda parte" del I capitolo. Anche questa la sto rileggendo adesso, e vi trovo poco di buono. Ma la verità è che il motivo fondamentale per cui lo propongo è proprio quello di rintracciare la base del romanzo che ho in mente e dargli una forma più chiara e lineare. Trovo che tutto sia scritto troppo "ad ispirazione", quasi in maniera poco organica.
Devo riuscire a raggiungere una "quiete" narrativa che la fretta dell'esposizione mi toglie spesso e volentieri. Devo pensare ad un buon gioco di incastri. Sono convinto che qua troverò ispirazione e buonissimi consigli.

§Johan Razev§
[Modificato da Johan 27/12/2010 15:37]

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Ehi ... non mi ero accorto che avevi postato la seconda parte.
E' stata una coincidenza: mentre io finivo di leggere la prima parte e scrivevo il mio commento, tu postavi la seconda.
E quindi mentre ti chiedevo di postare ancora un altro pezzo tu lo avevi già fatto!
Coincidenza.
Ora lo leggerò con calma e ti farò sapere.

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Certamente, quando potrai e vorrai.
Mi fa piacere la vostra attenzione. E mi onora.
Grazie mille. [SM=g27811]

§Johan Razev§

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Salute Johan.
Premetto che non ho le “credenziali” per poter effettuare una critica, intesa nell’accezione più ampia del termine, del tuo scritto.
Sono un avido lettore, si, praticamente leggo tutti i giorni, e lo faccio da moltissimi anni, ma questo non mi conferisce alcuna capacità particolare che mi consenta di “giudicare” in qualche modo le altrui opere. In poche parole, la mia opinione vale quanto varrebbe quella di un gruppo di amici che si ritrovano intorno ad una tavola con ancora sopra i resti di un lauto pasto, diverse bottiglie vuote di rosso ed una di grappa in inesorabile esaurimento.
Fatta questa doverosa premessa, passo ad esprimere il mio punto di vista su quanto ho letto. Sottolineo che tutto ciò che scriverò riguarda esclusivamente le mie personalissime sensazioni ed impressioni. Mi riferirò al primo post che hai inserito chiamandolo “prima parte” e al successivo con lo scontato nome di “seconda parte”.
All’inizio della prima parte hai inserito una grande quantità di informazioni, di varia natura, su argomenti di non sempre facile comprensione. Lo stile che hai usato, come ha già detto il SociOssian, è particolare, immagino volutamente particolare (considerando lo stile che invece hai usato per il resto dello scritto). Tutto questo ha reso un po’ ostica la lettura e la comprensione degli argomenti trattati. Un lettore poco convinto potrebbe trovare scoraggiante un simile inizio.
Il finale della prima parte, invece, è di tutt’altro genere. Però, come dicevo in un mio precedente post, non sono riuscito a comprendere in che modo sono giunto a leggere la “storia del libro” (sai a cosa mi riferisco). E’ come se ci fosse uno scalino quasi nascosto, di quelli che necessiterebbero della scritta “Attenti al gradino”, per evitare di inciamparci sopra e sbattere il “muso” per terra. Ecco, io il gradino, almeno all’inizio, non l’ho visto … ma la caduta non è stata poi così violenta.
Riferendomi invece alla “seconda parte” lo stile è ovviamente omogeneo e non c’è molto da commentare, se non che in alcuni passaggi sembra tu abbia avuto un po’ fretta di accelerare i tempi; un po’ ovunque, inoltre, si sente la mancanza di dialoghi tra i personaggi.
Ecco, non credo di avere altro da aggiungere. Ripeto che la mia opinione lascia il tempo che trova e non ho nessunissima intenzione di giudicare ne tantomeno criticare il tuo lavoro.
Conclusione: vai così, Johan, posta un altro pezzo che io sono più che curioso di sapere come prosegue la storia!
[Modificato da Admin-Geko 28/12/2010 13:05]

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28/12/2010 14:27
 
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Fantastico, sono davvero contento di aver letto questo commento.
E ti ringrazio mille volte per il giudizio. Uno dei miei punti carenti è il fatto di non riuscire talvolta a mantenere il giusto distacco da ciò che scrivo ed avendo per la testa un concetto tendo ad affrettare la scrittura per giungervi prima. E spesso nemmeno me ne rendo conto quando lo rileggo. Considererò seriamente le tue parole, anche perché dovrò di sicuro riscrivere molti pezzi.

Passo alla terza parte del I° capitolo, allora:

Poi improvvisamente accadde.
Spinto e guidato da quei remoti ricordi e pensieri che avevano a poco a poco riempito la mia testa, come fosse una vecchia cassa di cianfrusaglie, appoggiai di lato il computer e mi diressi verso la mansarda salendo le scale di legno che schioccavano sotto il mio peso e dileggiando la mia attenzione. Aprii la porta al piano superiore, che cigolò infastidita. Mi piegai quasi subito sopra un mucchio di giornali accatastati a terra. Diedi poi un'occhiata ad alcuni di quelli. Lessi le date e notai che la maggior parte aveva festeggiato più compleanni di me, a far baldoria al buio del solaio.
Poi il mio occhio cadde sullo scuro baule relegato dall'altro lato della stanza, in penombra. La curiosità mi vinse immediatamente, e non feci troppo caso all'orario.
Mi ci volle qualche minuto e molto impegno per arrivare a sollevarne il coperchio, dal momento che era stato chiuso a chiave (e con la chiave mezza arrugginita nella toppa).
Quando la serratura cadde rumorosamente a terra, ebbi il sospetto di aver svegliato tutto il vicinato, nell'area di alcuni chilometri e con loro pure mia nonna, al piano di sotto, che di orecchio non era più particolarmente sensibile.
Il silenzio in tensione si allentò lentamente, facendosi di nuovo fitto, e dunque ripresi la mia ricerca notturna.
Aprii il baule. Nessuna luce eterea si accese all'interno, né voci angeliche accompagnarono l'eroica impresa. Mi sentii l'ultimo degli argonauti ed il primo dei coglioni.
Panni. Con ogni probabilità mangiucchiati dalle tarme.
Presi fra le mani il lucchetto da terra e lo rimproverai silenziosamente. Due occhi mi fissavano da sopra la serratura. Il ferro battuto era scalfito e rendeva il disegno a tratti irriconoscibile, ma erano due occhi e nemmeno tanto rassicuranti.
Notai comunque che il baule era assai meglio tenuto del lucchetto che avevo in mano. Il ferro meno eroso. Non ci voleva certo quel cocainomane di Holmes per comprendere che prima dovesse aver tenuto chiuso qualcos'altro di molto più vecchio. E per quella notte ero ancora in vena di ricerche.
Diedi un altro veloce sguardo alla stanza senza trovare alcuna traccia di avventura esplorativa. Questo a parte il tugurio nero che come una breccia si apriva dietro all'uscio spalancato, beninteso, ed io là non mi ci infilai mai, per una paura generica e per una, più specifica, per i topi, eppure ora avevo in tasca un cellulare e la voglia di cercare. Il primo procurò la luce, e la seconda il giusto coraggio per affrontare movimenti sospetti fra le ombre.
Dunque mi chinai ed entrai nell'apertura del muro.
La luce si fece più forte e per la prima volta vidi com'era l'ambiente di quel sottotetto.
Questa volta non sarei rimasto deluso, mi convinsi nel vedere che all'angolo opposto erano state spinte alcune scatole e due altri bauli.
Nelle prime rinvenni calcinacci polverosi e qualche tegola, nei secondi molte altre riviste e quattro volumi. Tre tomi molto grossi ed impolverati ed un piccolo libercolo quasi accartocciato su sé stesso per via dell'umidità. Afferrai quest ultimo perché era il più facile da trasportare e con esso uscii alla luce più diffusa della mansarda.
Mi appoggiai al freddo muro della stanza, mentre da sotto udii accendersi il riscaldamento con quel suo sbuffo rabbioso e continuo che per anni mi fece pensare ad un vecchio animale incazzoso nelle tubature.
Le mani mi tremavano come in preda ad una forte eccitazione. Da sempre patito della lettura, quella nuova scoperta aveva toccato corde del mio animo che si scoprivano ogni volta volubili ed incorrotte.
Osservai accuratamente il libro appena rinvenuto: i bordi erano decorati con arazzi molto particolari ed orientaleggianti. La copertina frontale mancava ed il cuoio rimasto teneva assieme di taglio le pagine e le proteggeva sul retro, lasciando l'incisione del titolo sulla terza facciata all'interno, dopo una pagina di carta velina che temetti di strappare con il respiro. Il titolo era riportato con precisione:

I Savi Uomini de' tempi curiosi.
riportati secondo li usi da' mastro Giosuè Carnevali poeta
per la Signoria Vostra Luigi da Dallo, conte in Quara nell'anno del Signore 1457

Meccanicamente girai il piccolo libro e, guardando la sua parte posteriore, con un po' di sorpresa, notai una scritta, dorate le parole che la formavano:
Per Noi che della dimenticanza facciamo la Regola. Per voi che della dimenticanza fate tesoro.

Mio nonno, pensai.
Mio nonno lo sapeva chi fosse Ibn Alef Pasham il Costruttore.

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§Johan Razev§
[Modificato da Johan 28/12/2010 14:27]

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28/12/2010 14:30
 
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II Capitolo
Restai in eremitaggio a Massa per due settimane.
L'esame successivo è ancora lontano, mi ripetevo. Le lezioni erano già terminate.
Mi presi il tempo per leggere e rileggere quel libro. Lo portai al pian terreno assieme agli altri tre tomi, in camera da letto. Li appoggiai ordinatamente sul tavolino accanto alla finestra. Ogni pomeriggio mi dedicavo alla lettura per qualche ora, nella speranza vana di farlo senza interruzioni.
I Savi Uomini de' tempi curiosi era un libro molto metodico, pur essendo discretamente striminzito nel riportare i fatti storici. Molte volte anche impreciso. Ebbi però ragione nel credere che in esso avrei trovato qualcosa su Pasham. Gli era stato dedicato un intero capitolo, infatti.
Veniva ricordato come Il Costruttore perché il califfo al-Walid I ibn 'Abd al-Malik aveva espressamente chiesto di lui, che al tempo era un famoso architetto, per organizzare la costruzione della Moschea Omayyade, ad Aleppo.
Lui però nacque a Damasco e trascorse praticamente tutta la sua vita in Siria. Ebbe contatti durante la vecchiaia anche con Abū l-‛Abbās, detto as-Saffā, che fu in seguito il primo califfo abbaside. Da questi venne accolto nella nuova capitale, Baghdad, dove Pasham infine morirà, forse di morte violenta.
Al di là della sua fama come architetto, comunque, e del rispetto di facciata che la gente gli tributava, su Pasham giravano molte maldicenze e dunque trascorse un'esistenza di sostanziale e pacata solitudine. A dispetto di ciò, ogni anno casa sua diventava il ritrovo di un discreto numero di intellettuali appassionati di leggende e miti. Solitamente questo avveniva nei giorni immediatamente precedenti alla festività del sacrificio, la Id al-adha, che cadeva nel nono giorno del mese islamico del dhu l-hìjja (in novembre). Per una settimana quegli uomini studiavano antichi libri e recitavano poemi provenienti da ogni parte del mondo. E' infatti probabile fu proprio durante queste riunioni che Pasham raccolse il materiale per la sua opera, scritta in un non meglio precisato anno della sua maturità ed intitolata Al rahîl, cioè “la partenza”.
Pur ricordandone il nome originale, Carnevali afferma di averne letta solo una traduzione in latino, di non molto posteriore. Il già citato De Unicitate Rerum Deorum.
Presupponendo non vi siano stati errori intermedi, mi continuava a stupire fosse quella la fonte delle tre leggende di Re Fosso dell'Appennino. Pasham, in pratica, non si allontanò mai dalla Siria e se in qualche modo aveva raccolto leggende italiane, qualcuno doveva averle recapitate in patria per lui.
Ero convinto mancasse ancora qualcosa. Un tassello chiarificatore.
Il giorno successivo al ritrovamento dei libri telefonai in città e rivelai a mio padre la scoperta.
Lui non parve particolarmente sorpreso. Mi spiegò che se qualcuno aveva sbattuto quelle pagine nell'angolo più buio della mansarda, alla mercé dei topi, un motivo doveva pur esserci. E per evitare fraintendimenti o un sovraccarico di ricercatezza misterica, seppi quasi subito che era stata mia nonna in qualche tempo lontano. Aveva bisogno di panni, e non di riviste e giornali.
<< Michele non avrebbe scelto un luogo simile per dei libri. >> mi disse. << Me li mostrerai, comunque. >>
E glieli mostrai. Il venerdì seguente, quando la famiglia fu nuovamente riunita a casa di mia nonna.
Io avevo ormai letto una buona metà de I Savi Uomini, e sapevo se non altro qualcosa in più su Ibn Pasham. Gli altri capitoli riguardavano il ladro Lucius Villon, vissuto in Francia al tempo di Filippo II, forse parente del più famoso François, poi il ronin Ichiro Oda del periodo Kamakura, e James Greene, un commerciante britannico che visse per lungo tempo in Italia, nel XIII secolo.
Erano personalità apparentemente slegate le une dalle altre, eppure l'opera le raggruppava nell'ambito di quei “tempi curiosi” di cui tutti loro parlarono nelle opere che scrissero.
A parte il regno di Fosso, capii, anche altri avevano raccontato storie non databili ed apparentemente misconosciute o ignote alla loro terra ed ai loro contemporanei.
Riportai a mio padre il fatto che secondo Giosuè Carnevali, l'autore del libro, la maggior parte della loro mitologia si poteva ritrovare, mutata, in quella tradizionale. Era come se i loro racconti fossero scomparsi in seguito alla fusione con quelli già conosciuti. Alcuni topoi classici e molte deformazioni letterarie attualmente attestate sarebbero dunque derivazione delle storie di questi autori.
Gli feci vedere anche gli altri tre volumi, a cui io avevo dato giusto un'occhiata, nei giorni precedenti.
Il loro rivestimento spiccava per un lucido cuoio rossastro che incorniciava il titolo goticheggiante, pieno di svolazzi plasmati nel ferro.

I Tre Razev
E la battaglia per la Luce
volume I

Era scritto su su uno di essi.
Gli altri si rivelavano come proseguimento di quella che pareva essere una saga.
Mio padre sorrise. Ne prese uno, apparentemente a caso, e con estrema delicatezza. Sfogliò qualche pagina, quindi lo appoggiò di nuovo sul tavolino. Ne prese un altro e questa volta rimase a leggere qualcosa con una certa attenzione, poi ripose anche quello.
<< Sembra interessante, non trovi? >> Mi domandò.
<< Molto. >>
Mio padre era parso molto interessato all'argomento ed aveva partecipato da subito con domande ed osservazioni, ma per qualche motivo finii per sospettare una sua partecipazione. Non avevo idea né a che livello, e se diretta o indiretta, e nemmeno a cosa effettivamente legasse la propria partecipazione, ma il suo sguardo era chiaro e trasparente, a tratti semplice e noncurante, come quello del complice che assiste ad eventi preordinati.
<< Razev. >> Lasciò quella parola volteggiare in aria, quasi potesse avere il tempo di chiarificarsi da sé. << Razev... >> Ripeté. << Anagrammandolo si ottiene Verza. Curioso, no? >>
Ovvio. Forse volevamo entrambi solo una dose in più di mistero.
Avevo in ogni caso altri motivi concreti e nuove domande da porre all'antiquario di Verona. Mio padre lo intuiva e dunque programmammo un secondo viaggio a villa Carinardi per il mese seguente. Io ne fui entusiasta.
Mia madre fece capolino dalla porta, annunciando che era ormai ora di cena. Solo in quel momento udii di nuovo il trambusto proveniente dalla sala. Antonio e Paolo che ridevano e mia nonna che diceva qualcosa a proposito del papa.
Altre risate. La tv che parlava. L'odore del brodo caldo e del vino.
I miei pensieri si sciolsero come lingue di fumo e mi sedetti a tavola lasciando da parte ogni altra cosa che non avesse il sapore della casa e del tempo attuale. Passato e futuro erano organismi oscuri. Uno come cemento, l'altro come nebbia.
Mangiai in silenzio.
Dopo cena, presi posto sul divano accanto a quello dove stava mia nonna.
Feci un breve resoconto di quello a cui ero giunto. Le leggende sul Re Fosso erano state inserite in un libro sull'Appennino Tosco-Emiliano. E fin qui tutto chiaro. Nella bibliografia veniva riportato Ibn Pasham in quanto fonte, e la sua De Unicitate Rerum Deorumdunque era una superstite dell'opera di mistificazione involontaria (o meno) attuata dalla tradizione, la quale aveva fatto sparire quei miti, inglobandoli.
L'unico punto ancora oscuro si restringeva a come e perché essi fossero finiti e forse indebitamente attribuiti alla tradizione dell'Appennino. Decisi fosse il caso di aspettare il mese successivo ed intanto occuparmi della lettura dei libri e magari documentarmi su Giosuè Carnevali, sperando che le personalità da lui ricordate non fossero tutte fantasmi della Storia, come lo era diventato Pasham.
Vana speranza, purtroppo. Come in seguito scoprii dai miei seppur limitati studi, ognuno di quelli pareva non fosse mai esistito, ed insieme a loro anche Carnevali, del quale rinvenni solo un'opera teatrale, intitolata Il segreto di Luigi Scrittore, interessante elaborato sui temi della memoria e della morte. Strana ironia della sorte, pensai con una certa nostalgia quando lo lessi molti mesi dopo.
Mi venne addirittura il sospetto che quel destino d'oblio fosse causato dallo stesso male comune. Qualcosa che cancellasse dalle cronologie avvenimenti ed esistenze, quasi si trattasse di un elenco dal quale una volontà confusa ma lucida avesse il potere di depennare nomi e vite. E che tale volontà fosse minuziosa nelle proprie decisioni, dettagliata.
Pensiero romantico quello che assegnava solo al grande ed al bello la vittoria sul silenzio della perduta memoria, mentre si trattava il più delle volte del grido del vittorioso al di sopra delle mille urla dello sconfitto, del reietto, del perduto, il quale piega il capo e scompare.

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Bene, da questo secondo capitolo iniziano gli inghippi storico-mitologici che tanto mi interessano nella loro "sensazione".

§Johan Razev§

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Ieri ho finito di leggere tutto.
Ma nessun altro, oltre me, frequenta questo topic? Eppure nel nostro forum ci sono alcune persone che potrebbero dare ottimi consigli al buon Johan.
Ad ogni modo, per ricapitolare, quoto il mio ultimo commento:
Admin-Geko, 28/12/2010 13.03:


Premetto che non ho le “credenziali” per poter effettuare una critica, intesa nell’accezione più ampia del termine, del tuo scritto.
Sono un avido lettore, si, praticamente leggo tutti i giorni, e lo faccio da moltissimi anni, ma questo non mi conferisce alcuna capacità particolare che mi consenta di “giudicare” in qualche modo le altrui opere. In poche parole, la mia opinione vale quanto varrebbe quella di un gruppo di amici che si ritrovano intorno ad una tavola con ancora sopra i resti di un lauto pasto, diverse bottiglie vuote di rosso ed una di grappa in inesorabile esaurimento.
Fatta questa doverosa premessa, passo ad esprimere il mio punto di vista su quanto ho letto. Sottolineo che tutto ciò che scriverò riguarda esclusivamente le mie personalissime sensazioni ed impressioni. Mi riferirò al primo post che hai inserito chiamandolo “prima parte” e al successivo con lo scontato nome di “seconda parte”.
All’inizio della prima parte hai inserito una grande quantità di informazioni, di varia natura, su argomenti di non sempre facile comprensione. Lo stile che hai usato, come ha già detto il SociOssian, è particolare, immagino volutamente particolare (considerando lo stile che invece hai usato per il resto dello scritto). Tutto questo ha reso un po’ ostica la lettura e la comprensione degli argomenti trattati. Un lettore poco convinto potrebbe trovare scoraggiante un simile inizio.
Il finale della prima parte, invece, è di tutt’altro genere. Però, come dicevo in un mio precedente post, non sono riuscito a comprendere in che modo sono giunto a leggere la “storia del libro” (sai a cosa mi riferisco). E’ come se ci fosse uno scalino quasi nascosto, di quelli che necessiterebbero della scritta “Attenti al gradino”, per evitare di inciamparci sopra e sbattere il “muso” per terra. Ecco, io il gradino, almeno all’inizio, non l’ho visto … ma la caduta non è stata poi così violenta.
Riferendomi invece alla “seconda parte” lo stile è ovviamente omogeneo e non c’è molto da commentare, se non che in alcuni passaggi sembra tu abbia avuto un po’ fretta di accelerare i tempi; un po’ ovunque, inoltre, si sente la mancanza di dialoghi tra i personaggi.
Ecco, non credo di avere altro da aggiungere. Ripeto che la mia opinione lascia il tempo che trova e non ho nessunissima intenzione di giudicare ne tantomeno criticare il tuo lavoro.


Ecco, in riferimento alla terza e quarta parte, ovvero gli ultimi due post, ripeto in sintesi quello che ho scritto vero la fine del mio commento: sembra tu abbia avuto un po’ fretta di accelerare i tempi; un po’ ovunque, inoltre, si sente la mancanza di dialoghi tra i personaggi. In alcuni casi hai fatto delle descrizioni molto belle, minuziose, mentre in molti altri sei andato velocemente alla conclusione, spesso tralasciando dettagli e spiegazioni che potevano esser molto utili alla comprensione del testo.
Non ho capito, per esempio, come il protagonista sia giunto ad un paio di conclusioni e la storia dei libri e dei rispettivi autori non è chiarissima.
Conludo come fatto precedentemente: ripeto che la mia opinione lascia il tempo che trova e non ho nessunissima intenzione di giudicare ne tantomeno criticare il tuo lavoro.
Vai, Johan, posta un altro pezzo.
[Modificato da Admin-Geko 05/01/2011 09:41]

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Ciao Johan

Io ho letto la prima parte ma volevo aspettare d avere qualche paginetta in piú per stampare, portare a casa, e rifletterci un pó su. Non appena aggiungi la prossima sezione mi ci metto al lavoro.

Osso
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Sempre più onorato per il vostro impegno e la vostra attenzione.
Continuerò a ringraziarvi ad ogni nuova sezione aggiunta..eheh
Il fatto è che il piacere di esporre a persone che so per certo riescono a leggere con la giusta critica ciò che espongo mi sprona ad una rilettura ugualmente critica ed attenta. Per questo, ed in questo rispondo a Geko, non aspetto altro che giudizi sinceri, anche assolutamente diretti, quale che sia l'opinione a riguardo.
Infatti, più leggo, più avverto a mia volta quel senso di fretta di cui parli. Un problema di chi scrive è la paura di cancellare, la paura di cambiare "troppo", anche quando è chiaro l'errore. Aver tenuto fermo questo tentativo di romanzo per così tanto tempo (e nel mentre pensare al background) mi dà la possibilità di rapportarmi ad esso con più distacco.
Grazie, di nuovo.
Ora passo a proporre un altro pezzo:



Trascorse anche la seconda settimana, a Massa di Toano, e venerdì raggiunsi i miei amici in città.
Uscimmo nella fredda sera invernale e ci rifugiammo immediatamente in un caldo pub non lontano dal Centro di Reggio, il Re Artù. Ormai l'inverno ci stringeva nel suo gelo pressante ed affilato. Ancora non aveva nevicato ma il cielo annunciava un prossimo cambio di rotta.
Ci accomodammo vicino ad un termosifone e quasi tutti ordinarono qualcosa di caldo da bere. Pure nella distensione dell'atmosfera, nella mia mente fischiavano pensieri ben svegli. Non credo fui di molta compagnia, in effetti. E se così era stato, comunque, non me lo diedero a vedere.
E' strano pensare siano passati solo due anni, da allora, perché è un tempo dilatato, quello che ricordo.
Due anni e tutto è cambiato seguendo deformazioni impreviste. Se avessi saputo che in pochi mesi avrei dovuto viaggiare per mezza Europa avrei speso meno tempo a lamentarmi di non essere ancora partito per l'estero. Mi sono spostato tanto a lungo e tanto in fretta che di viaggiare ne avevo piene le tasche già due mesi dopo aver preso il primo treno Reggio-Bologna. Uno squallido regionale che mi avrebbe portato lontano dalla mia famiglia per tredici mesi e mezzo.
Ma questo dopo il secondo incontro con Carinardi l'antiquario.

Quando mi ritrovai di nuovo davanti alla sua villa era gennaio inoltrato ed avevo già letto I Savi Uomini un paio di volte. Avevo addirittura sfogliato il primo volume della Trilogia dei Razev. Mi ero preparato come uno studente modello che si apprestava ad un appello d'esame. Tenevo il libretto di Carnevali nella tasca interna del cappotto e guardavo mio padre avvicinarsi al citofono che un tempo non gli rispose che dopo il terzo tentativo. Questa volta andò meglio e già al secondo una voce stanca disse:
<< Ben tornati. >>
Il cancello si aprì meccanicamente e di nuovo percorremmo il lastricato fino all'ingresso. I miei occhi non indugiarono più di qualche secondo sulla scritta sopra il portone. Carinardi si presentò con una vestaglia da camera molto diversa da quella che gli ricordai addosso la prima volta, questa non era molto pesante ed ai piedi un altro paio di pantofole, di un rosso accesso, che lasciavano all'aria i pallidi talloni. Si copriva con un lungo cappotto, di quelli da viaggio, ma rabbrividii ugualmente per lui.
Studiai nuovamente il suo volto, quasi vi potessi scorgere accenni utili. Era una personalità a tratti affascinante, senza dubbio, ma per lo più incuteva apprensione. Lo avrei detto parte delle antichità che curava, piuttosto che il loro possessore. Il mento prominente come quello dell'uomo d'azione.
Si accorse di essere osservato quando mi fece cenno di entrare. Ebbi l'impressione che mi avesse rivolto anche un sorriso ma fu per un attimo, prima di voltarsi e guidarci di nuovo nel lungo corridoio.
A differenza della prima volta, ci fece sedere al tavolo della cucina che stava esattamente dirimpetto alla sala della libreria. Una stufa riscaldava l'atmosfera e così mi sfilai immediatamente la giacca, appoggiando il libro di Carnevali sul marmo bianco della tavola. Mio padre sedeva alla mia destra ed aveva assunto una posizione meditabonda, fissando con uno sguardo strano il nostro ospite.
<< Fate come se foste a casa vostra. Non fate complimenti. Eccetera, eccetera. >> Agitò la mano in aria mentre si girava verso i fornelli dove bolliva un tegame d'acqua.
<< Massimo, hai concluso per il quadro? >> Gli domandò mio padre, facendo schioccare la lingua. << Si tratta dell'ultimo, prima della mostra. >>
<< Quasi. >>
Calò un quieto silenzio, stemperato dal rumore cupo dell'acqua che si agitava sotto il coperchio tintinnante.
<< Mio figlio ha letto I Savi Uomini. >> Poi si rivolse a me, più piano. << Diglielo pure, non preoccuparti. >>
Esposi con una certa fretta i punti fondamentali della mia lettura e conclusi con le domande che più mi interessavano. Mio padre annuì con orgoglio e mi dedicò un sorriso bonario e rassicurante.
<< Ho trascorso molto tempo a studiare i miti e le leggende del mondo. Io e tuo nonno eravamo uniti nella stessa passione, e per quanto non possa dirmi un animale socievole lo considerai ben presto un buon amico. Ed un ottimo amico, dopo alcuni anni. >>
<< Fino a quando non ti fece credere di aver perduto il tuo libro. >> disse mio padre, allungandosi in avanti.
<< Non andò esattamente in questo modo. >> Sospirò, e decisi per lui che fu nostalgia. << Glielo diedi perché lo volevo rendere partecipe di qualcosa di molto importante. Era una persona acuta ed aperta. Uno spirito libero.
<< Abbiamo trascorso molto tempo sulle leggende che tuo figlio ha letto, perché in quelle tre in particolare è condensato un intricato messaggio che ha attraversato i secoli ed i millenni. Molti millenni. L'esegesi che abbiamo intrapreso assieme era una mia forma di fiducia nei suoi confronti che con me stava condividendo una scoperta. Lo studio dei miti è lo studio dei paradigmi umani che affrontano la stessa storia, in luoghi diversi. Il comparto delle leggende è un'ala immensa che avvolge il globo terrestre ed ogni sua piuma è parte integrante del sistema ultimo, che è originario. C'è un mondo intero dietro le leggende, un mondo di possibile storia reale. Dèi che furono in primo luogo uomini, re degli uomini, così come supponeva Evemero.
<< Pasham, infatti, >> e pronunciando quel nome Carinardi mi trafisse con lo sguardo << è una voce che tramanda, come migliaia di altre persone prima e dopo di lui. Quello che lo differenzia dalla maggior parte di loro, e che lo rende così eccezionale, riguarda ciò che decise di tramandare. La storia dei Tempi Antichi. I più lontani di cui si abbia memoria. >>
Mio padre allungò la mano sul libro che stava sotto i miei occhi. Lo girò a sé e poi, pacatamente, lo indirizzò verso l'antiquario.
<< Anche questo è tuo? >>
<< No. Quello è di Michele. Io ne ho una copia meglio tenuta. Credo ce ne sia solo un'altra, oltre a queste due. Effettivamente non ho mai scoperto dove avesse trovato la sua, ed è probabile che questa fonte fosse anche il vero motivo per cui decise di non rendermi l'altro, quello riguardante le leggende dell'Appennino. Forse aveva trovato nuove informazioni o nuovi informatori, non saprei dirlo. >>
Mi agitai sulla sedia, vedendo quelle pagine sgualcite fra le mani di Carinardi.
<< Cosa c'entra Ibn Pasham con l'Appennino Tosco-Emiliano? >> Fui io, a parlare.
<< Non c'entra affatto. >> Sorrise. << E' il vero mistero su cui io e tuo nonno stavamo studiando. La sola interpretazione di quelle leggende garantiva la formulazione di molte ipotesi, questo è chiaro, ma, come te, compresi immediatamente che luoghi e tempi non combaciavano. Nuovo Rosso è un luogo inesistente, al contrario degli altri nominati. Re Fosso può essere anche accostato alla storia dell'Appennino prima della conquista da parte di Galli e Liguri, ma tale datazione risente molto di imprecisioni ed i punti scuri sono frequenti ed ampi. >>
Mentre parlava guardava con molta approssimazione il mio libro. Lo teneva poco accuratamente fra l'indice ed il pollice della destra, mentre con l'altra mano lasciava scivolare le pagine. Di quando in quando si fermava e dava una letta veloce, quindi ricominciava. Quel supplizio durò ancora qualche minuto, quando finalmente mi fu restituito il maltolto.
<< Non ho soddisfatto le tue aspettative, eh? >> La sua domanda suonava evidentemente come una presa per il culo.
<< No. >> Gli risposi secco.
Mio padre mi toccò la spalla, richiamando la mia attenzione. Capii subito, dato che ne avevamo parlato a lungo in macchina. Prima di decidermi guardai l'orologio (segnava le 16.37) e feci un segno a Carinardi che l'acqua, alle sue spalle, stava fuoriuscendo dal tegamino. Goffo come allora non li rividi più. Non doveva mai essere stato bravo nelle faccende domestiche. Versò l'acqua in una tazza, non senza bruciarsi (ma imprecò in silenzio), e mise in infusione una bustina aromatica di tè. Odorai la vaniglia.
<< Ho trovato altri tre libri, insieme a questo. >> Dissi.
Carinardi non tradì alcuna emozione ma bloccò ogni movimento. I suoi capelli fini e radi scivolarono lentamente davanti alla fronte e la chiazzarono di bianco. Si voltò poi indietro di scatto senza degnarmi di uno sguardo o di una risposta. Prese un cucchiaino e lo appoggiò accanto alla tazza su cui si curò di mettere un piattino come coperchio. Ora si muoveva con una calma impossibile, quasi decidesse in maniera religiosa ogni singola mossa.
<< Sono tre volumi di molte pagine. >> Continuai. << Sulla copertina si legge I Tre Razev e la battaglia per la Luce. Le dice nulla, questo? >>
<< Sì, qualcosa. A te no, Umberto? >>
Quando tirò in causa mio padre a quella maniera, temetti seriamente fosse in qualche modo invischiato nella faccenda. Scoprirlo così non sarebbe stato molto gradevole. Comunque questi rispose laconico, senza scomporsi:
<< No, nulla. >>
<< Famiglia complicata, la vostra. >>
Stavo cominciando ad abituarmi alle sue frasi enigmatiche, lanciate come esce letali in un branco di pesci. Non cedemmo alla tentazione di porre una domanda e per questo Carinardi sembrò indispettito quando riprese a parlare.
<< Walter ha mai avuto l'occasione di raccontarti come ha conosciuto Michele? >>
Guardai mio padre. Lo vidi muoversi con una certa agitazione, mentre accennava di no con il capo.
<< Le nostre famiglie si sono conosciute ufficialmente negli anni Settanta, ma credo che mio padre conoscesse già Michele. >> Disse. << La zia di mia moglie, Daria, abitava nello stesso grattacielo della mia famiglia, in via Monte San Michele. >>
<< Sono stati miei cari amici, per lungo tempo. >> Riprese l'antiquario, quasi non avesse prestato ascolto alle parole di mio padre. << Walter lo conobbi durante la Grande Guerra. Abbiamo combattuto assieme sul fronte greco-albanese. Eravamo di stanza a Corfù. Lui era un tenente medico ed io un soldato semplice. >> Fu solo per un momento, ma vidi in lui un riflesso di quel che era stato, stretto nell'uniforme. Lo sguardo duro, ferito dallo scalpello di quei tempi tragici. << Lo conobbi pochi mesi prima dell'armistizio, sotto l'ombra di una tenda. Io ero steso su una branda, ed accanto a me c'era un uomo. Un greco. Si chiamava Spiros. >>
<< La conosco, quella storia. >> Disse mio padre.
<< Suo padre lo curava con determinazione, sai? >> Si stava rivolgendo a me, adesso. << E quel greco dovette accorgersene, perché rispondeva a tono, con un sorriso curioso sul viso. Era una ferita profonda. Doveva far male. Come stai, gli chiedeva Walter, e lui rispondeva: kalà. Sto bene. E sorrideva. Kalà, ancora. Un'ora prima di morire, mezz'ora prima di morire. Un minuto prima di morire. Kalà, diceva. >>
Si allungò verso una scatola di biscotti alla panna e scuoteva la testa, nel ricordo.
<< Io non ero così saldo. Però ricordai quel medico così ingenuo, nel suo carattere. Lo incontrai di nuovo due anni dopo la firma del generale Papagos. Era una notte di agosto. Di lì a poco l'Italia avrebbe accordato il proprio, di armistizio, con gli anglo-americani e noi, in Grecia, avremmo subìto la rappresaglia dei tedeschi. Ma era ancora agosto, e l'aria era buona. Io camminavo sotto la chiesa di San Spiridione. Lo trovai là, a guardare fisso il campanile, come se attendesse che suonasse per lui. Abbiamo parlato tutta la sera. Mi disse che aveva fatto il servizio militare a Castiglione dei Pepoli, dove ha conosciuto tua madre, Umberto. >> Sorrise. << E del fatto che ora avesse un figlio. >>
Mio padre ascoltava con interesse.
<< Questo lo sapevo. Me lo ha raccontato lui. Molte volte. >> Annunciò.
<< Michele invece lo conobbi quattro anni più tardi, la primavera successiva al suo matrimonio. Lui e l'Enrica erano venuti a Verona con gli alpini, in quanto caporale della divisione tridentina. Fu un incontro abbastanza curioso. Da allora fino alla sua morte siamo rimasti in ottimi rapporti, esulando il problema del manoscritto sottratto ovviamente. >>
Sorrise impercettibilmente, alzando appena un angolo della bocca. Considerai stesse pensando che invece la sua amicizia con Walter non avesse retto tanto.
Poi cambiò espressione, si guardò un momento attorno e mugugnò qualcosa, come se stesse misurando le parole che stava per pronunciare. Quindi le lasciò scivolare fuori, con naturalezza.
<< In effetti sì, Michele e Walter si conobbero un po' prima del vostro fidanzamento. Un po' prima dei vostri anni Settanta. >> Cosa ci trovasse di tanto divertente da dover sogghignare a quella maniera non lo capivo proprio.
Soffiò un'ultima volta sulla tazza, dopo aver tolto il coperchio. Assaggiò il liquido amaranto. Ne seguì un verso di approvazione. Fece schioccare qualche volta la lingua, come se volesse degustare fino in fondo la propria opera.
<< Sicuri di non volerne un po'? >>
Nessuno di noi rispose.

§Johan Razev§

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"Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso" Gandalf
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"Venite amici che non è tardi per scoprire un mondo nuovo.
Io vi propongo di andare più in là dell'orizzonte
E se anche non abbiamo l'energia
che in giorni lontani
mosse la terra e il cielo,
siamo ancora gli stessi,
unica eguale tempra di eroici cuori
indeboliti forse dal fato
ma con ancora la voglia di combattere
di cercare
di trovare
e di non cedere." A. Tennyson - Ulysses -
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Veramente Immenso

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